Alto Adige: licenza edilizia solo in presenza di acqua potabile
Venerdì 28 Maggio 2010 17:38
Presentato dall'assessore all'ambiente Laimer il piano di tutela delle acque potabili
L'assessore all'ambiente della provincia di Bolzano, Michl Laimer, ha presentato il Piano di tutela alle acque potabili approvato dalla Giunta ad aprile. Oltre a fornire un quadro competo della situazione attuale, il Piano fissa anche gli obiettivi ed i criteri per l'utilizzazione delle acque potabili, nonché la parte normativa riguardante la sostenibilità ambientale.
Aspetto innovativo del piano è rappresentato dal fatto che prima di concedere la licenza edilizia deve essere effettuata la verifica riguardo alla presenza di sufficienti fonti di acqua potabile. Il Piano prevede anche l’ampliamento delle zone di tutela dell’acqua potabile al fine di assicurare le riserve idriche.
Obiettivo: 15%
Al centro del discorso dell'assessore, ovviamente, l'importanza fondamentale dell'acqua potabile per il patrimonio idrico altoatesino che dispone di 10.000 m3 annui di acqua per ogni abitante. Laimer ha però sottolineato anche le perdite d'acqua potabile che si verificano negli acquedotti: circa 25%. Un dato comunque non così preoccupante se confrontato con altre Regioni italiane che raggiungono il 70%. Nonostante questo però, l'assessorato si è impegnato a ridurre ulteriormente le perdite ed a raggiungere il livello del 15%.
Situazione altoatesina
Ogni anno in Alto Adige si registrano precipitazioni per 5000 milioni di metri cubi d'acqua: 55 milioni vengono utilizzati come acqua potabile, 170 milioni nel settore dell’agricoltura e 75 milioni per l’industria. Circa il 95% delle famiglie altoatesine sono allacciate alle condutture idriche pubbliche, ha sottolineato il direttore dell’Ufficio gestione risorse idriche, Wilfried Rauter. In alto Adige vi sono 541 acquedotti pubblici, 1700 sorgenti e 100 pozzi.
Tra i dati resi noti nel corso dell’incontro è emerso infine che un cittadino altoatesino in media spende 40 euro all’anno per l’acqua potabile, meno di quanto viene speso, ad esempio, per lo stesso servizio in Austria, 100 euro, o in Germania, tra i 75 ed i 250 euro.
sabato 29 maggio 2010
martedì 25 maggio 2010
IDROCARBURI CLORURATI NELLE FALDE NUOVA METODOLOGIA DI INDAGINE
Una tecnologia low cost per monitorare l'inquinamento dell'acqua
Uno dei grandi problemi ambientali è rappresentato dalla presenza dei CHC, i famigerati "idrocarburi clorurati” nelle falde acquifere. Si tratta di un gruppo di sostanze chimiche utilizzate essenzialmente come solventi. A partire dagli anni '20 sono state impiegate in grosse quantità in diversi settori produttivi: nell'industria meccanica, nelle tintorie o lavanderie chimiche, nell'industria orologiera, in quella cartaria, ma anche per l'estrazione della caffeina o per la fabbricazione di pesticidi in agricoltura.
Questi solventi sono, in effetti, molto facili da manipolare, sono economici e non emanano odori sgradevoli. Si è scoperto solo negli anni '80 quanto siano pericolosi per la salute. E solo più tardi ci si è accorti della presenza di queste sostanze anche nelle acque sotterranee e nell'acqua potabile e da allora gli esperti hanno cominciato ad occuparsi in modo sistematico delle loro caratteristiche e della loro diffusione.
Questi sono inquinanti detti persistenti: sono cioè sostanze che si accumulano nell'ambiente e che si decompongono o molto lentamente o affatto. Per verificare la presenza di queste sostanze nelle acque sotterranee il processo è ancora lento e costoso. Ma mediante una tecnologia innovativa sviluppata presso l’Oak Ridge National Laboratory, negli USA, il rilevamento potrebbe divenire più semplice.
Il metodo introdotto è stato pubblicato su Analitic Chemistry e utilizza la spettrometria per mobilità ionica per il monitoraggio di idrocarburi clorurati in acqua. "La nostra tecnologia rappresenta un basso costo ancora modo altamente accurato per monitorare inquinanti in acqua e aria", riferisce June Xu il ricercatore a capo del progetto.
Il sistema è in grado di rilevare tetracloroetilene e tricloroetilene in acqua a partire da una concentrazione di 75 microgrammi per litro, in soli di tre minuti con un abbattimento dei costi di monitoraggio a lungo termine fino all’80 per cento.
Co-autori del documento, dal titolo "Membrane-extraction ion mobility spectrometry for in situ detection of chlorinated hydrocarbons in water"sono Yongzhai Du, Zhang Wei, William Whitten e David Watson di ORNL e Haiyang Li.
Uno dei grandi problemi ambientali è rappresentato dalla presenza dei CHC, i famigerati "idrocarburi clorurati” nelle falde acquifere. Si tratta di un gruppo di sostanze chimiche utilizzate essenzialmente come solventi. A partire dagli anni '20 sono state impiegate in grosse quantità in diversi settori produttivi: nell'industria meccanica, nelle tintorie o lavanderie chimiche, nell'industria orologiera, in quella cartaria, ma anche per l'estrazione della caffeina o per la fabbricazione di pesticidi in agricoltura.
Questi solventi sono, in effetti, molto facili da manipolare, sono economici e non emanano odori sgradevoli. Si è scoperto solo negli anni '80 quanto siano pericolosi per la salute. E solo più tardi ci si è accorti della presenza di queste sostanze anche nelle acque sotterranee e nell'acqua potabile e da allora gli esperti hanno cominciato ad occuparsi in modo sistematico delle loro caratteristiche e della loro diffusione.
Questi sono inquinanti detti persistenti: sono cioè sostanze che si accumulano nell'ambiente e che si decompongono o molto lentamente o affatto. Per verificare la presenza di queste sostanze nelle acque sotterranee il processo è ancora lento e costoso. Ma mediante una tecnologia innovativa sviluppata presso l’Oak Ridge National Laboratory, negli USA, il rilevamento potrebbe divenire più semplice.
Il metodo introdotto è stato pubblicato su Analitic Chemistry e utilizza la spettrometria per mobilità ionica per il monitoraggio di idrocarburi clorurati in acqua. "La nostra tecnologia rappresenta un basso costo ancora modo altamente accurato per monitorare inquinanti in acqua e aria", riferisce June Xu il ricercatore a capo del progetto.
Il sistema è in grado di rilevare tetracloroetilene e tricloroetilene in acqua a partire da una concentrazione di 75 microgrammi per litro, in soli di tre minuti con un abbattimento dei costi di monitoraggio a lungo termine fino all’80 per cento.
Co-autori del documento, dal titolo "Membrane-extraction ion mobility spectrometry for in situ detection of chlorinated hydrocarbons in water"sono Yongzhai Du, Zhang Wei, William Whitten e David Watson di ORNL e Haiyang Li.
giovedì 13 maggio 2010
ITALIA DEFERITA ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE SUL TRATTAMENTO DELLE ACQUE REFLUE URBANE
Acque reflue, l'Italia deferita alla Corte di Giustizia Ue
Per la Commissione europea l'Italia ha violato la direttiva Ue sul trattamento delle acque reflue urbane
La Commissione europea ha deferito l’Italia e la Spagna alla Corte di giustizia dell’UE per aver violato la direttiva del 1991 sul trattamento delle acque reflue urbane, che come è noto rappresentano un rischio per la salute, se non adeguatamente trattate, così come per l'ambiente marino e le acque dolci.
In base alla direttiva 91/271/CEE i due Paesi avrebbero dovuto infatti predisporre entro il 31 dicembre 2000 sistemi adeguati per il convogliamento e il trattamento delle acque nei centri urbani con oltre 15mila abitanti. Già nel 2004 l’Italia e la Spagna avevano ricevuto una prima lettera di diffida, poiché risultava che un numero elevato di città e centri urbani non era in regola con la normativa.
178 Comuni italiani inadempienti
Una seconda lettera è stata spedita alla Spagna nel dicembre 2008 e all’Italia nel febbraio 2009 e da una successiva valutazione è risultato che circa 178 città e centri urbani italiani (tra cui Reggio Calabria, Lamezia Terme, Caserta, Capri, Ischia, Messina, Palermo, San Remo, Albenga e Vicenza) e circa 38 centri urbani spagnoli (fra cui A Coruña, Santiago, Gijon e Benicarlo) non si erano ancora conformati alla direttiva. “Le acque reflue urbane non trattate – ha dichiarato il commissario europeo per l’ambiente Janez Potočnik - costituiscono sia un pericolo per la sanità pubblica sia la principale causa di inquinamento delle acque costiere e interne. Non è accettabile che, più di otto anni dopo il termine stabilito, l’Italia e la Spagna non si siano ancora conformate a questa importante normativa. La Commissione non ha altra scelta se non portare i due casi innanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea”.
Record negativo in Sicilia
“L'Italia primeggia per inadempienza sia alle proprie leggi che a quelle comunitarie”. Questo il commento dell'Aduc (Associazione per i diritti degli utenti e consumatori) che ha anche fornito un elenco dei Comuni inosservanti suddivisi per Regioni. Ad “eccellere” è la Sicilia con 74 Comuni su 178, pari al 42%; segue la Calabria con 32, pari al 18%; poi la Campania con 23 comuni, 13%; la Liguria con 19, 11%; la Puglia con 10, 6%, ecc. Le tre regioni del Sud, Sicilia, Calabria e Campania, hanno 129 Comuni sui 178 sotto accusa, pari al 73% del totale. “Insomma – conclude l'Aduc - governi di centro-destra o di centro-sinistra, la situazione cambia poco. A danno dei cittadini, ovviamente”.
118 TIPI DI PESTICIDI DIVERSI NELLE ACQUE ITALIANE
ISPRA: le acque inquinate dai residui di prodotti fitosanitari
Nelle acque italiane sono stati rinvenuti 118 i tipi di pesticidi diversi. Lo ha reso noto l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), che ha pubblicato i dati sul monitoraggio nazionale dei residui di prodotti fitosanitari nelle acque sulla base delle informazioni fornite dalle Regioni e dalle Agenzie regionali e provinciali per la protezione dell'ambiente.
Queste sostanze sono utilizzate - spiega l'Ispra - in agricoltura e, complici le piogge, vengono trasportate dal suolo alle acque sotterranee e superficiali. In Italia solo il comparto agricolo impiega oltre 300 diverse sostanze per un quantitativo pari a circa 150 mila tonnellate all'anno.
Nel biennio 2007-2008 sono stati valutati 19.201 campioni provenienti dalle 18 Regioni che hanno trasmetto i dati. Secondo il rapporto “critica” appare la contaminazione di una sostanza, la Terbutilazina, usata per colture di mais e sorgo. “Nelle regioni - si legge nel rapporto Ispra - dove l'uso della sostanza è più intenso (Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna) la contaminazione interessa più dell'80% dei siti delle acque superficiali controllati”. Inoltre il rapporto segnala la “presenza diffusa” in tutta l'area Padano-Veneta di atrazina, residuo di una contaminazione storica.
In generale il rapporto Ispra rileva una copertura del territorio ancora incompleta ma anche differenze tra le regioni. Il monitoraggio, infatti, risulta più efficace al nord e “spesso limitato e poco rappresentativo” al centro-sud. Per quanto riguarda i dati sui campioni, nel 2008 le indagini hanno riguardato 3136 punti di campionamento e 9531 campioni.
Rinvenuti residui di pesticidi nel 47,9% dei 1082 punti di monitoraggio delle acque superficiali, nel 31,7% dei casi con concentrazioni superiori ai limiti delle acque potabili. Nelle acque sotterranee, infine, contaminato il 27% dei 2054 punti esaminati.
Nelle acque italiane sono stati rinvenuti 118 i tipi di pesticidi diversi. Lo ha reso noto l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), che ha pubblicato i dati sul monitoraggio nazionale dei residui di prodotti fitosanitari nelle acque sulla base delle informazioni fornite dalle Regioni e dalle Agenzie regionali e provinciali per la protezione dell'ambiente.
Queste sostanze sono utilizzate - spiega l'Ispra - in agricoltura e, complici le piogge, vengono trasportate dal suolo alle acque sotterranee e superficiali. In Italia solo il comparto agricolo impiega oltre 300 diverse sostanze per un quantitativo pari a circa 150 mila tonnellate all'anno.
Nel biennio 2007-2008 sono stati valutati 19.201 campioni provenienti dalle 18 Regioni che hanno trasmetto i dati. Secondo il rapporto “critica” appare la contaminazione di una sostanza, la Terbutilazina, usata per colture di mais e sorgo. “Nelle regioni - si legge nel rapporto Ispra - dove l'uso della sostanza è più intenso (Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna) la contaminazione interessa più dell'80% dei siti delle acque superficiali controllati”. Inoltre il rapporto segnala la “presenza diffusa” in tutta l'area Padano-Veneta di atrazina, residuo di una contaminazione storica.
In generale il rapporto Ispra rileva una copertura del territorio ancora incompleta ma anche differenze tra le regioni. Il monitoraggio, infatti, risulta più efficace al nord e “spesso limitato e poco rappresentativo” al centro-sud. Per quanto riguarda i dati sui campioni, nel 2008 le indagini hanno riguardato 3136 punti di campionamento e 9531 campioni.
Rinvenuti residui di pesticidi nel 47,9% dei 1082 punti di monitoraggio delle acque superficiali, nel 31,7% dei casi con concentrazioni superiori ai limiti delle acque potabili. Nelle acque sotterranee, infine, contaminato il 27% dei 2054 punti esaminati.
lunedì 26 aprile 2010
UNA FALDA DI ACQUA DOLCE IN AMAZZONIA GRANDE COME IL MEDITERRANEO
Trovata in Amazzonia una falda acquifera grande come il Mediterraneo
È stata scoperta in Amazzonia una falda acquifera contenente 86 mila chilometri cubi di acqua dolce, la più grande mai conosciuta, paragonabile per dimensioni al Mar Mediterraneo. La falda, la cui scoperta è stata annunciata dai ricercatori dell'università del Parà, è costata trent'anni di studi, trivellazioni, scavi e test, spesso in luoghi di difficilissimo accesso. Le rilevazioni confermano che essa si trova sotto gli stati amazzonici di Parà, Amazonas e Amapà, lungo quindi il corso del Rio delle Amazzoni e alcuni suoi affluenti. Nei pressi di Manaus (che dal deposito estrae il 40% del suo fabbisogno di acqua potabile), la falda affiora quasi in superficie, con forti rischi di inquinamento.
Il deposito, che probabilmente sarà battezzato “Grande Amazonia”, è ancora più grande di quelli nel sottosuolo della Russia e dell'Australia finora considerati i più vasti al mondo. Nel sottosuolo del Brasile si trova già gran parte del cosiddetto “Acquifero Guaranì”, terza riserva mondiale di acqua dolce con 45 mila chilometri cubi di acqua che però è stata gravemente inquinata dalle colture intensive in superficie.
La falda nel sottosuolo degli Stati Uniti, che si estende dall'Arizona al Texas su un'estensione pari a quella del Mar Mediterraneo, è ormai ridotta ad un quinto della sua portata iniziale, per eccesso di sfruttamento, e potrebbe esaurirsi già nel giro di alcuni decenni, come hanno denunciato numerose organizzazioni ambientali come Conservation Intenational, con gravi conseguenze per il fabbisogno idrico americano.
Il Brasile diventa così “l'Arabia Saudita dell'acqua” per il futuro del pianeta. Adesso l'equipe di ricercatori guidata dal geologo Milton Matta cercherà di stabilire il ritmo di afflusso dell'acqua alla falda e la sua capacità di ricambio, per stimare quanto se ne può prelevare senza correre lo stesso rischio di inquinarla.
È stata scoperta in Amazzonia una falda acquifera contenente 86 mila chilometri cubi di acqua dolce, la più grande mai conosciuta, paragonabile per dimensioni al Mar Mediterraneo. La falda, la cui scoperta è stata annunciata dai ricercatori dell'università del Parà, è costata trent'anni di studi, trivellazioni, scavi e test, spesso in luoghi di difficilissimo accesso. Le rilevazioni confermano che essa si trova sotto gli stati amazzonici di Parà, Amazonas e Amapà, lungo quindi il corso del Rio delle Amazzoni e alcuni suoi affluenti. Nei pressi di Manaus (che dal deposito estrae il 40% del suo fabbisogno di acqua potabile), la falda affiora quasi in superficie, con forti rischi di inquinamento.
Il deposito, che probabilmente sarà battezzato “Grande Amazonia”, è ancora più grande di quelli nel sottosuolo della Russia e dell'Australia finora considerati i più vasti al mondo. Nel sottosuolo del Brasile si trova già gran parte del cosiddetto “Acquifero Guaranì”, terza riserva mondiale di acqua dolce con 45 mila chilometri cubi di acqua che però è stata gravemente inquinata dalle colture intensive in superficie.
La falda nel sottosuolo degli Stati Uniti, che si estende dall'Arizona al Texas su un'estensione pari a quella del Mar Mediterraneo, è ormai ridotta ad un quinto della sua portata iniziale, per eccesso di sfruttamento, e potrebbe esaurirsi già nel giro di alcuni decenni, come hanno denunciato numerose organizzazioni ambientali come Conservation Intenational, con gravi conseguenze per il fabbisogno idrico americano.
Il Brasile diventa così “l'Arabia Saudita dell'acqua” per il futuro del pianeta. Adesso l'equipe di ricercatori guidata dal geologo Milton Matta cercherà di stabilire il ritmo di afflusso dell'acqua alla falda e la sua capacità di ricambio, per stimare quanto se ne può prelevare senza correre lo stesso rischio di inquinarla.
DALL'UNIVERSITA' DI TEL AVIV NUOVI SVILUPPI DELLA DISINFEZIONE DELL'ACQUA CON RAGGI ULTRAVIOLETTI
Niente più cloro per il trattamento delle acque
I trattamenti comunemente in uso attualmente per rendere l’acqua potabile utilizzano il cloro, sostanza capace di disattivare la maggior parte dei microorganismi e relativamente poco costosa. Il cloro produce però sottoprodotti cancerogeni. Gli scienziati dell'Università di Tel Aviv hanno messo a punto un nuovo impianto che utilizza invece la luce ultra-violetta (UV).
I ricercatori dell'università' israeliana sono riusciti a stabilire la “lunghezza d'onda ottimale” dei raggi UV per mantenere l'acqua pulita da microrganismi. Una scoperta importante che permetterà, affermano gli studiosi, di creare nuovi impianti più efficienti per il trattamento delle acque e per la desalinizzazione senza che vengano utilizzate sostanze chimiche, come il cloro, che possono rivelarsi a lungo andare cancerogene per l'uomo.
“L'irradiazione della luce UV è sempre più utilizzato come processo primario per la disinfezione dell'acqua- ha affermato Anat Lakretz, ricercatore alla Tau's School of Mechanical Engineering dell'università' di Tel Aviv - Nel nostro recente studio, abbiamo dimostrato come il trattamento può essere ottimizzato per uccidere i batteri che nuotano liberamente nell'acqua, gli stessi che si conficcano nelle tubazioni e, creando dei biofilm batterici, intasano i filtri degli impianti di desalinizzazione “.
I ricercatori, esaminando le lunghezze d'onda dei raggi UV nella scala tra i 220 e i 280 nanometri (nm), hanno sottolineato che i raggi con una lunghezza d'onda compresa tra i 254 e i 270 nm hanno “un'efficace capacità” di pulizia dell'acqua: lampade speciali, che emettono uno spettro multi lunghezza d'onda, sono così in grado sia di mantenere le membrane degli impianti prive di batteri, che contro alcuni parassiti molto nocivi per la salute umana, come Giarrdia e Cryptosporidium, che non vengono distrutti dal normale trattamento al cloro.
Riferimenti: http://www.aftau.org/site/News2?page=NewsArticle&id=12087
I trattamenti comunemente in uso attualmente per rendere l’acqua potabile utilizzano il cloro, sostanza capace di disattivare la maggior parte dei microorganismi e relativamente poco costosa. Il cloro produce però sottoprodotti cancerogeni. Gli scienziati dell'Università di Tel Aviv hanno messo a punto un nuovo impianto che utilizza invece la luce ultra-violetta (UV).
I ricercatori dell'università' israeliana sono riusciti a stabilire la “lunghezza d'onda ottimale” dei raggi UV per mantenere l'acqua pulita da microrganismi. Una scoperta importante che permetterà, affermano gli studiosi, di creare nuovi impianti più efficienti per il trattamento delle acque e per la desalinizzazione senza che vengano utilizzate sostanze chimiche, come il cloro, che possono rivelarsi a lungo andare cancerogene per l'uomo.
“L'irradiazione della luce UV è sempre più utilizzato come processo primario per la disinfezione dell'acqua- ha affermato Anat Lakretz, ricercatore alla Tau's School of Mechanical Engineering dell'università' di Tel Aviv - Nel nostro recente studio, abbiamo dimostrato come il trattamento può essere ottimizzato per uccidere i batteri che nuotano liberamente nell'acqua, gli stessi che si conficcano nelle tubazioni e, creando dei biofilm batterici, intasano i filtri degli impianti di desalinizzazione “.
I ricercatori, esaminando le lunghezze d'onda dei raggi UV nella scala tra i 220 e i 280 nanometri (nm), hanno sottolineato che i raggi con una lunghezza d'onda compresa tra i 254 e i 270 nm hanno “un'efficace capacità” di pulizia dell'acqua: lampade speciali, che emettono uno spettro multi lunghezza d'onda, sono così in grado sia di mantenere le membrane degli impianti prive di batteri, che contro alcuni parassiti molto nocivi per la salute umana, come Giarrdia e Cryptosporidium, che non vengono distrutti dal normale trattamento al cloro.
Riferimenti: http://www.aftau.org/site/News2?page=NewsArticle&id=12087
mercoledì 21 aprile 2010
ARSENICO E PH 11 NEI LAGHI DELLE ANDE
I laghi velenosi delle Ande
Elevate concentrazioni di arsenico disciolto nelle acque di alcuni laghi vulcanici sulle Ande, non hanno impedito a fenicotteri e colonie di batteri di popolarli. I ricercatori National Scientific and Technical Research Council di Tucumn, in Argentina hanno trovato sulla laguna Diamante all'interno del cratere del Cerro Galan, un vulcano tuttora attivo a 4600 metri dal livello del mare.
Le acque e le sue sponde sono abitate nonostante le condizioni molto ostili' dell'area: una fiorente stuoia di microbi vive nelle acque super alcaline della laguna e divengono il cibo per la colonia di fenicotteri. La ricerca è stata pubblicata su Nature.
La laguna, spiegano i ricercatori, ha un ph molto alcalino, ph 11, e contiene cinque volte di più il livello di sale dell'acqua marina. Inoltre la concentrazione di arsenico è superiore di 20.000 volte rispetto al livello considerato sicuro dall'Environmental Protection Agency e, essendo situato ad un'altezza di 4600 metri, i livelli di ossigeno sono bassi e gli ultravioletti più forti del normale. Queste condizioni rendono 'molto ostile e difficoltosa' la vita nella zona.
"Per questo motivo - ha affermato la ricercatrice Mara Eugenia Faras - Gli organismi scoperti, che sono esposti a Arsenico e gas velenosi, potrebbe far luce su come è iniziata la vita sulla terra, e inoltre la loro resistenza a condizioni estreme potrebbe essere la chiave per nuove applicazioni scientifiche".
Elevate concentrazioni di arsenico disciolto nelle acque di alcuni laghi vulcanici sulle Ande, non hanno impedito a fenicotteri e colonie di batteri di popolarli. I ricercatori National Scientific and Technical Research Council di Tucumn, in Argentina hanno trovato sulla laguna Diamante all'interno del cratere del Cerro Galan, un vulcano tuttora attivo a 4600 metri dal livello del mare.
Le acque e le sue sponde sono abitate nonostante le condizioni molto ostili' dell'area: una fiorente stuoia di microbi vive nelle acque super alcaline della laguna e divengono il cibo per la colonia di fenicotteri. La ricerca è stata pubblicata su Nature.
La laguna, spiegano i ricercatori, ha un ph molto alcalino, ph 11, e contiene cinque volte di più il livello di sale dell'acqua marina. Inoltre la concentrazione di arsenico è superiore di 20.000 volte rispetto al livello considerato sicuro dall'Environmental Protection Agency e, essendo situato ad un'altezza di 4600 metri, i livelli di ossigeno sono bassi e gli ultravioletti più forti del normale. Queste condizioni rendono 'molto ostile e difficoltosa' la vita nella zona.
"Per questo motivo - ha affermato la ricercatrice Mara Eugenia Faras - Gli organismi scoperti, che sono esposti a Arsenico e gas velenosi, potrebbe far luce su come è iniziata la vita sulla terra, e inoltre la loro resistenza a condizioni estreme potrebbe essere la chiave per nuove applicazioni scientifiche".
giovedì 15 aprile 2010
NUOVA MOLECOLA PER LA RILEVAZIONE DEI METALLI
Ouroborand, la molecola mangia-coda
Due chimici dello The Scripps Research Institute hanno ottenuto un nuovo strumento scientifico su scala nanometrica, un piccolo interruttore molecolare che si accende e spegne quando rileva ioni metallici nelle immediate vicinanze. La notizia è sulla copertina del numero del 19 aprile 2010 della rivista Angewandte Chemie.
Questa molecola può essere uno strumento di laboratorio per il controllo delle reazioni in provetta, e può essere la base di una nuova tecnologia che potrebbe rilevare in maniera sensibile metalli, tossine, e di altri inquinanti in aria, acqua o suolo.
La molecola si chiama "ouroborand" dal nome del mitico Ouroboros il simbolo molto antico che rappresenta un serpente che si morde la coda, ricreandosi continuamente e formando così un cerchio. È un simbolo associato all'alchimia. Nel laboratorio di Scripps Research, dove è stato inventato, la molecola ouroborand è un interruttore si “accende” o “spegne” quando rileva i metalli.
Questo passaggio è possibile perché la molecola presenta le due estremità che ricordano l’Ouroboros:
"Quando non sono presenti i metalli, la coda della molecola si svolge all'interno della cavità presente sull’altra estremità", dice Julius Rebek, Ph.D., direttore dell'Istituto per Skaggs Chemical Biology presso lo Scripps Research. In presenza di ioni di zinco o altro metallo, il legame che collega la testa e la coda si apre. Rimuovendo il metallo, e la coda si lega di nuovo all'altra estremità della molecola.
Quando Rebek e il suo compagno Fabien Durola hanno sintetizzato la molecola e hanno deciso di chiamarla ouroborand hanno fatto una sorta di ritorno ai sogni dei chimici e alchimisti di molto tempo fa. Nel Medioevo e nel Rinascimento, il mitico Ouroboros era un simbolo usato in alchimia, l'antica pratica che è stata il precursore della chimica moderna.
Due chimici dello The Scripps Research Institute hanno ottenuto un nuovo strumento scientifico su scala nanometrica, un piccolo interruttore molecolare che si accende e spegne quando rileva ioni metallici nelle immediate vicinanze. La notizia è sulla copertina del numero del 19 aprile 2010 della rivista Angewandte Chemie.
Questa molecola può essere uno strumento di laboratorio per il controllo delle reazioni in provetta, e può essere la base di una nuova tecnologia che potrebbe rilevare in maniera sensibile metalli, tossine, e di altri inquinanti in aria, acqua o suolo.
La molecola si chiama "ouroborand" dal nome del mitico Ouroboros il simbolo molto antico che rappresenta un serpente che si morde la coda, ricreandosi continuamente e formando così un cerchio. È un simbolo associato all'alchimia. Nel laboratorio di Scripps Research, dove è stato inventato, la molecola ouroborand è un interruttore si “accende” o “spegne” quando rileva i metalli.
Questo passaggio è possibile perché la molecola presenta le due estremità che ricordano l’Ouroboros:
"Quando non sono presenti i metalli, la coda della molecola si svolge all'interno della cavità presente sull’altra estremità", dice Julius Rebek, Ph.D., direttore dell'Istituto per Skaggs Chemical Biology presso lo Scripps Research. In presenza di ioni di zinco o altro metallo, il legame che collega la testa e la coda si apre. Rimuovendo il metallo, e la coda si lega di nuovo all'altra estremità della molecola.
Quando Rebek e il suo compagno Fabien Durola hanno sintetizzato la molecola e hanno deciso di chiamarla ouroborand hanno fatto una sorta di ritorno ai sogni dei chimici e alchimisti di molto tempo fa. Nel Medioevo e nel Rinascimento, il mitico Ouroboros era un simbolo usato in alchimia, l'antica pratica che è stata il precursore della chimica moderna.
domenica 28 marzo 2010
IL FERRO OCEANICO PROVIENE DAI VULCANI SOTTOMARINI
I vulcani sottomarini sono la fonte di ferro oceanica
Un gruppo di scienziati australiani e francesi hanno mostrato per la prima volta che i vulcani sottomarini sono una fonte importante del ferro nell'oceano. La ricerca pubblicata su Nature Geoscience, dimostra dunque il ruolo fondamentale dei vulcani nell’omeostasi delle acque degli oceani, perche questo elemento è un nutriente limitante per il fitoplancton.
In seguito ad un lavoro pionieristico nel 2008, gli scienziati hanno fatto le prime misurazioni della concentrazione di ferro disciolto nel profondo Southern Ocean a profondità di fino a quattro chilometri sotto la superficie. Lo studio indica che la quantità di ferro che proviene dai vulcani sottomarini è relativamente costante nel tempo e da essa dipende lo stoccaggio del 5-15% (in alcune zone fino al 30%) del carbonio nell'Oceano meridionale.
Ciò significa che i nutrienti emessi da un vulcano possono agire come cuscinetto quando altre fonti, come la polvere, variano. Gli scienziati hanno scoperto che molta dell'acqua ricca di ferro raggiunge la superficie vicino all'Antartide, provocando in quella zona la fioritura del fitoplancton.
“Numerosi studi hanno già indicato che i vulcani sottomarini rilasciano ferro”, riferisce Andrew Bowie, uno degli autori della ricerca e dirigente scientifico presso il Centro di ricerca sul clima e sugli ecosistemi cooperativi antartici di Hobart, in Tasmania. "Ma nessuno studio lo ha considerato a livello globale e ha considerato la sua importanza sullo stoccaggio di carbonio nell'Oceano meridionale".
Bowie ha detto che non è ancora chiaro in che modo il cambiamento climatico influisca sulla quantità totale di ferro che arriva in superficie. Alcuni studi indicano che venti occidentali più forti che soffiano sulla superficie dell'oceano vicino all'Antartide trascineranno maggiori quantità di acqua ricca di ferro in alto, alimentando una maggiore crescita di fitoplancton e anche una maggiore cattura di CO2.
Riferimenti: http://www.nature.com
Un gruppo di scienziati australiani e francesi hanno mostrato per la prima volta che i vulcani sottomarini sono una fonte importante del ferro nell'oceano. La ricerca pubblicata su Nature Geoscience, dimostra dunque il ruolo fondamentale dei vulcani nell’omeostasi delle acque degli oceani, perche questo elemento è un nutriente limitante per il fitoplancton.
In seguito ad un lavoro pionieristico nel 2008, gli scienziati hanno fatto le prime misurazioni della concentrazione di ferro disciolto nel profondo Southern Ocean a profondità di fino a quattro chilometri sotto la superficie. Lo studio indica che la quantità di ferro che proviene dai vulcani sottomarini è relativamente costante nel tempo e da essa dipende lo stoccaggio del 5-15% (in alcune zone fino al 30%) del carbonio nell'Oceano meridionale.
Ciò significa che i nutrienti emessi da un vulcano possono agire come cuscinetto quando altre fonti, come la polvere, variano. Gli scienziati hanno scoperto che molta dell'acqua ricca di ferro raggiunge la superficie vicino all'Antartide, provocando in quella zona la fioritura del fitoplancton.
“Numerosi studi hanno già indicato che i vulcani sottomarini rilasciano ferro”, riferisce Andrew Bowie, uno degli autori della ricerca e dirigente scientifico presso il Centro di ricerca sul clima e sugli ecosistemi cooperativi antartici di Hobart, in Tasmania. "Ma nessuno studio lo ha considerato a livello globale e ha considerato la sua importanza sullo stoccaggio di carbonio nell'Oceano meridionale".
Bowie ha detto che non è ancora chiaro in che modo il cambiamento climatico influisca sulla quantità totale di ferro che arriva in superficie. Alcuni studi indicano che venti occidentali più forti che soffiano sulla superficie dell'oceano vicino all'Antartide trascineranno maggiori quantità di acqua ricca di ferro in alto, alimentando una maggiore crescita di fitoplancton e anche una maggiore cattura di CO2.
Riferimenti: http://www.nature.com
venerdì 26 marzo 2010
ANNIE LEONARD SVELA ALCUNI PARTICOLARI DELL'ACQUA IN BOTTIGLIA
Quanti disonesti messaggi in ogni bottiglia!
26-03-2010 13:06
Annie Leonard, l’attivista americana famosa per aver prodotto il video animazione “The story of stuff” in cui vengono svelati gli altarini dell’insostenibile modello di consumo occidentale, lancia una nuova importante campagna contro l’utilizzo dell’acqua in bottiglia con un efficace video che mette in luce tutti gli aspetti critici del business dell’acqua imbottigliata. Una sequenza di messaggi per far riflettere sul fatto che il cambiamento di qualche piccolo nostro gesto può determinare un notevole impatto positivo su ambiente e salute.
Negli USA si compra mezzo miliardo di bottiglie d’acqua alla settimana. Per avere una vaga idea di quante possano essere basta pensare che mettendole una in fila all’altra si può tracciare cinque volte la circonferenza della Terra! Come riescono le aziende a creare una tale dipendenza dall’acqua imbottigliata? L’arte sta nel costruire e indurre, con campagne subdole e disoneste, un bisogno irreale nei consumatori.
Come è possibile che le persone comprino l’acqua confezionata quando è praticamente gratis quella che esce dal rubinetto? Per indurre la domanda le campagne pubblicitarie fanno leva sull’insicurezza e il senso di inadeguatezza di chi non possiede lo specifico prodotto, che viene percepito come assolutamente indispensabile, grazie anche alla parallela demolizione dell’immagine dell’acqua dal rubinetto, rappresentata come qualcosa di malsano, poco gradevole e… fuori moda.
L’insidiosa manipolazione della percezione mira a nascondere la verà identità del prodotto associandolo a immagini di natura incontaminata, sorgenti purissime in una cornice di montagne verdeggianti. La realtà è, però, tutt’altra cosa: un terzo delle marche di acqua in bottiglia negli USA sono banalissima acqua di rubinetto filtrata! Dai test effettuati su un campione di consumatori americani risulta, inoltre, che l’acqua “del sindaco” ha un sapore migliore, oltre ad essere, in generale, più controllata di quella in bottiglia nonostante il costo 2.000 volte superiore!
In una rivista che tratta di alimentazione la Nestlè ha dichiarato che l’acqua in bottiglia è il prodotto di cunsumo più sostenbile dal punto di vista ambientale al mondo. Niente di più scorretto e ingiustificato, a fronte di un ciclo di vita che inquina pesantemente l’ambiente lungo tutte le sue fasi.
Ogni anno negli USA per la produzione delle bottiglie di plastica vengono impiegati tanta energia e petrolio da poter alimentare un milione di automobili. Altrettanta energia è poi utilizzata per trasportarla in tutto il mondo, a fronte di una fase di utilizzo di solo qualche minuto prima di essere gettata via.
Il secondo grande problema è proprio lo smaltimento di tutte le bottiglie usate. Dove vanno a finire? A differenza di quanto si possa immaginare ben l’80% è destinato alla discarica dove giacerà per migliaia di anni, una parte viene bruciata negli inceneritori, producendo inquinamento e sostanze tossiche, e solo una minima parte viene di fatto riciclata.
Che strada prendono, quindi, le bottiglie che differenziamo nell’apposito bidone? Annie Leonard ha seguito le navi cariche di bottiglie schiacciate dirette in India e ha visto con i suoi occhi un desolato paesaggio di montagne e montagne di bottiglie provenienti dalla California. Solo in piccola percentuale le bottiglie godranno di una seconda vita. Per il resto in parte vengono semplicemente sminuzzate, per ridimensionarne il volume, e destinate nuovamente alla discarica, in parte vengono spedite nel “cortile” di qualcun altro, ad esempio, appunto, degli indiani. Se le compagnie fossero oneste dovrebbero in realtà rappresentare montagne di bottiglie dismesse nell’etichetta del loro prodotto.
Le compagnie vogliono far credere che l’acqua di rubinetto sia inquinata. Questo è vero in molti paesi, grazie anche a industrie come quella delle bottiglie in plastica. Dove non ci sono problemi sanitari ed igienici è fondamentale usare acqua di rubinetto e fare pressione perché maggiori investimenti vengano destinati alla rete di distribuzione pubblica. Negli USA le infrastrutture sono sotto finanziate di ben 24 miliardi di dollari, anche perché la gente pensa che sia potabile solo quella imbottigliata. Al mondo c’è un miliardo di persone che non ha accesso all’acqua potabile perché una gran quantità di risorse è destinata alla produzione di bottiglie in plastica che poi gettiamo via in pochi minuti. E se invece destinassimo quei soldi al miglioramento della rete di distribuzione o alla prevenzione dell’inquinamento?
Ci sono molte altre cose, sostiene Annie Leonard, che possiamo fare per risolvere questo problema: riprendere a bere l’acqua dalle fontane, far bandire i distributori e l’acqua in bottiglia dalle scuole e dalle organizzazioni. È un’opportunità per milioni di persone per prendere consapevolezza e scegliere di proteggere il loro portafoglio, la loro salute e l’intero pianeta.
26-03-2010 13:06
Annie Leonard, l’attivista americana famosa per aver prodotto il video animazione “The story of stuff” in cui vengono svelati gli altarini dell’insostenibile modello di consumo occidentale, lancia una nuova importante campagna contro l’utilizzo dell’acqua in bottiglia con un efficace video che mette in luce tutti gli aspetti critici del business dell’acqua imbottigliata. Una sequenza di messaggi per far riflettere sul fatto che il cambiamento di qualche piccolo nostro gesto può determinare un notevole impatto positivo su ambiente e salute.
Negli USA si compra mezzo miliardo di bottiglie d’acqua alla settimana. Per avere una vaga idea di quante possano essere basta pensare che mettendole una in fila all’altra si può tracciare cinque volte la circonferenza della Terra! Come riescono le aziende a creare una tale dipendenza dall’acqua imbottigliata? L’arte sta nel costruire e indurre, con campagne subdole e disoneste, un bisogno irreale nei consumatori.
Come è possibile che le persone comprino l’acqua confezionata quando è praticamente gratis quella che esce dal rubinetto? Per indurre la domanda le campagne pubblicitarie fanno leva sull’insicurezza e il senso di inadeguatezza di chi non possiede lo specifico prodotto, che viene percepito come assolutamente indispensabile, grazie anche alla parallela demolizione dell’immagine dell’acqua dal rubinetto, rappresentata come qualcosa di malsano, poco gradevole e… fuori moda.
L’insidiosa manipolazione della percezione mira a nascondere la verà identità del prodotto associandolo a immagini di natura incontaminata, sorgenti purissime in una cornice di montagne verdeggianti. La realtà è, però, tutt’altra cosa: un terzo delle marche di acqua in bottiglia negli USA sono banalissima acqua di rubinetto filtrata! Dai test effettuati su un campione di consumatori americani risulta, inoltre, che l’acqua “del sindaco” ha un sapore migliore, oltre ad essere, in generale, più controllata di quella in bottiglia nonostante il costo 2.000 volte superiore!
In una rivista che tratta di alimentazione la Nestlè ha dichiarato che l’acqua in bottiglia è il prodotto di cunsumo più sostenbile dal punto di vista ambientale al mondo. Niente di più scorretto e ingiustificato, a fronte di un ciclo di vita che inquina pesantemente l’ambiente lungo tutte le sue fasi.
Ogni anno negli USA per la produzione delle bottiglie di plastica vengono impiegati tanta energia e petrolio da poter alimentare un milione di automobili. Altrettanta energia è poi utilizzata per trasportarla in tutto il mondo, a fronte di una fase di utilizzo di solo qualche minuto prima di essere gettata via.
Il secondo grande problema è proprio lo smaltimento di tutte le bottiglie usate. Dove vanno a finire? A differenza di quanto si possa immaginare ben l’80% è destinato alla discarica dove giacerà per migliaia di anni, una parte viene bruciata negli inceneritori, producendo inquinamento e sostanze tossiche, e solo una minima parte viene di fatto riciclata.
Che strada prendono, quindi, le bottiglie che differenziamo nell’apposito bidone? Annie Leonard ha seguito le navi cariche di bottiglie schiacciate dirette in India e ha visto con i suoi occhi un desolato paesaggio di montagne e montagne di bottiglie provenienti dalla California. Solo in piccola percentuale le bottiglie godranno di una seconda vita. Per il resto in parte vengono semplicemente sminuzzate, per ridimensionarne il volume, e destinate nuovamente alla discarica, in parte vengono spedite nel “cortile” di qualcun altro, ad esempio, appunto, degli indiani. Se le compagnie fossero oneste dovrebbero in realtà rappresentare montagne di bottiglie dismesse nell’etichetta del loro prodotto.
Le compagnie vogliono far credere che l’acqua di rubinetto sia inquinata. Questo è vero in molti paesi, grazie anche a industrie come quella delle bottiglie in plastica. Dove non ci sono problemi sanitari ed igienici è fondamentale usare acqua di rubinetto e fare pressione perché maggiori investimenti vengano destinati alla rete di distribuzione pubblica. Negli USA le infrastrutture sono sotto finanziate di ben 24 miliardi di dollari, anche perché la gente pensa che sia potabile solo quella imbottigliata. Al mondo c’è un miliardo di persone che non ha accesso all’acqua potabile perché una gran quantità di risorse è destinata alla produzione di bottiglie in plastica che poi gettiamo via in pochi minuti. E se invece destinassimo quei soldi al miglioramento della rete di distribuzione o alla prevenzione dell’inquinamento?
Ci sono molte altre cose, sostiene Annie Leonard, che possiamo fare per risolvere questo problema: riprendere a bere l’acqua dalle fontane, far bandire i distributori e l’acqua in bottiglia dalle scuole e dalle organizzazioni. È un’opportunità per milioni di persone per prendere consapevolezza e scegliere di proteggere il loro portafoglio, la loro salute e l’intero pianeta.
giovedì 25 marzo 2010
L'ACQUA ENERGIA DEL FUTURO
L'acqua è il carburante del futuro
Dai laboratori del Mit (Massachusetts Institute of Technology) di Boston un innovativo sistema per fornire energia: imitando la fotosintesi tipica delle piante, il chimico Dan Nocera dimostra come sia possibile alimentare tutti i dispositivi della casa utilizzando solo pannelli solari e acqua.
Parlando all'Aspen Environment Forum ha rivelato una tecnologia pulita e semplice da attuare. Il suo team ha realizzato un elettrolizzatore utilizzante cobalto e fosfato di potassio, che viene alimentato con l’energia fornita da un semplice pannello solare di 6 metri per 5.
L’energia catturata dal calore del sole viene utilizzata per scindere le molecole di acqua in idrogeno e ossigeno gassosi. Con soli 5 litri di acqua sarebbe possibile ottenere energia sufficiente al fabbisogno di una abitazione.
Il sistema supera il limite stesso dell’energia solare, ovvero, il suo immagazzinamento. In quattro ore, afferma Nocera, l'acqua trattata con il catalizzatore è in grado di produrre 30 kW di energia. Tale processo, entro dieci anni, sempre secondo il chimico del MIT, potrebbe essere utilizzato in tutte le abitazioni dotate di pannelli fotovoltaici.
Esso, inoltre, rispetto ai sistemi sperimentati negli anni ’70, è meno costoso e meno dannoso. Gli scienziati, infatti, già in quegli anni avevano provato a replicare la fotosintesi biologica per produrre energia, ma le sperimentazioni condotte utilizzavano alte temperature, soluzioni alcaline pericolose per l’ambiente e per la salute, e tecnologie costosissime come i catalizzatori di platino. Alla domanda: "Ma l'idrogeno non è pericoloso?", lo scienziato ha risposto: "Non di più del gas che arriva in tutte le comuni abitazioni!" .
Riferimenti: http://spectrum.mit.edu
Dai laboratori del Mit (Massachusetts Institute of Technology) di Boston un innovativo sistema per fornire energia: imitando la fotosintesi tipica delle piante, il chimico Dan Nocera dimostra come sia possibile alimentare tutti i dispositivi della casa utilizzando solo pannelli solari e acqua.
Parlando all'Aspen Environment Forum ha rivelato una tecnologia pulita e semplice da attuare. Il suo team ha realizzato un elettrolizzatore utilizzante cobalto e fosfato di potassio, che viene alimentato con l’energia fornita da un semplice pannello solare di 6 metri per 5.
L’energia catturata dal calore del sole viene utilizzata per scindere le molecole di acqua in idrogeno e ossigeno gassosi. Con soli 5 litri di acqua sarebbe possibile ottenere energia sufficiente al fabbisogno di una abitazione.
Il sistema supera il limite stesso dell’energia solare, ovvero, il suo immagazzinamento. In quattro ore, afferma Nocera, l'acqua trattata con il catalizzatore è in grado di produrre 30 kW di energia. Tale processo, entro dieci anni, sempre secondo il chimico del MIT, potrebbe essere utilizzato in tutte le abitazioni dotate di pannelli fotovoltaici.
Esso, inoltre, rispetto ai sistemi sperimentati negli anni ’70, è meno costoso e meno dannoso. Gli scienziati, infatti, già in quegli anni avevano provato a replicare la fotosintesi biologica per produrre energia, ma le sperimentazioni condotte utilizzavano alte temperature, soluzioni alcaline pericolose per l’ambiente e per la salute, e tecnologie costosissime come i catalizzatori di platino. Alla domanda: "Ma l'idrogeno non è pericoloso?", lo scienziato ha risposto: "Non di più del gas che arriva in tutte le comuni abitazioni!" .
Riferimenti: http://spectrum.mit.edu
venerdì 12 marzo 2010
FOTOCATALISI PER TRATTARE ACQUE INQUINATE
Fotocatalisi per “ripulire” le acque dei fiumi inquinati
Non vi è dubbio che la fotocatalisi vada assumendo un ruolo sempre più primario nei processi biologici e nelle attività di controllo ambientali. Infatti, il bisogno di un ambiente più pulito e di una migliore qualità della vita esortano a pensare ad un uso eco-compatibile della luce e del sole ed in questo contesto la fotochimica potrebbe trasformarsi in una soluzione molto interessante tanto da diventare parte integrante della strategia mirante a ridurre l’inquinamento ambientale attraverso l’uso di fotocatalizzatori.
Negli ultimi anni l’interesse scientifico e tecnico per le applicazioni della fotocatalisi è cresciuto esponenzialmente. Più di duecento studi per anno vengono pubblicati nel solo settore del trattamento di aria e acqua. Ed è in questo contesto l'istituto di Chimica inorganica e delle superfici del Cnr insieme ai tecnici della Fondazione fenice Acegas e Conune di Padova stanno lavorando alla sperimentazione di una moderna tecnologia che prevede l’uso del biossido di titanio contro l'inquinamento dell'acqua.
Il TiO₂ è notoriamente attivo nei processi fotocatalitici a scopo fotodegradativo: i risultati di sperimentazioni ed applicazioni mirate a ridurre l’inquinamento ambientale hanno permesso di concludere che materiali trattati con Tio2 e irradiati con luce solare e/o artificiale, mostrano un'elevata efficienza nell’ossidare sostanze organiche e inorganiche (NOx; SOx; NH3 (gas); Clorurati organici; Acetaldeide; Formaldeide).
L’esperimento che sarà a condotto a Padova per "ripulire" le acque insalubri del fiume Roncajette. L'obiettivo finale è quello di realizzare un impianto pilota con filtri al titanio da porre a valle del depuratore di Ca' Nordio. Il Roncajette è il tratto finale del fiume Bacchiglione, che lambisce il territorio a sud est di Padova, prima di confluire nel Brenta e quindi nell'Adriatico.
"Attualmente stiamo predisponendo test per la verifica della sua attività rispetto a inquinanti reali – spiega Gilberto Rossetto dell´Icis-cnr – e in sistemi in condizioni di flusso continuo. Se anche in questa fase i risultati saranno positivi, il principio potrà essere applicato su scala industriale. Il progetto prevede, infatti, la collocazione di un impianto pilota, costituito da filtri speciali a valle del depuratore di Ca´ Nordio, auspicando anche la realizzazione di economie di scala sulle spese di gestione". "Si tratta di un progetto di riqualificazione delle acque – commenta l´assessore Mauro Bortoli – che si inserisce nel più ampio disegno di implementazione del sistema fognario e della rete idrica padovana. Un tema complesso e prioritario per la città che anche la tecnologia e la ricerca, come in questo caso, possono contribuire a risolvere".
Non vi è dubbio che la fotocatalisi vada assumendo un ruolo sempre più primario nei processi biologici e nelle attività di controllo ambientali. Infatti, il bisogno di un ambiente più pulito e di una migliore qualità della vita esortano a pensare ad un uso eco-compatibile della luce e del sole ed in questo contesto la fotochimica potrebbe trasformarsi in una soluzione molto interessante tanto da diventare parte integrante della strategia mirante a ridurre l’inquinamento ambientale attraverso l’uso di fotocatalizzatori.
Negli ultimi anni l’interesse scientifico e tecnico per le applicazioni della fotocatalisi è cresciuto esponenzialmente. Più di duecento studi per anno vengono pubblicati nel solo settore del trattamento di aria e acqua. Ed è in questo contesto l'istituto di Chimica inorganica e delle superfici del Cnr insieme ai tecnici della Fondazione fenice Acegas e Conune di Padova stanno lavorando alla sperimentazione di una moderna tecnologia che prevede l’uso del biossido di titanio contro l'inquinamento dell'acqua.
Il TiO₂ è notoriamente attivo nei processi fotocatalitici a scopo fotodegradativo: i risultati di sperimentazioni ed applicazioni mirate a ridurre l’inquinamento ambientale hanno permesso di concludere che materiali trattati con Tio2 e irradiati con luce solare e/o artificiale, mostrano un'elevata efficienza nell’ossidare sostanze organiche e inorganiche (NOx; SOx; NH3 (gas); Clorurati organici; Acetaldeide; Formaldeide).
L’esperimento che sarà a condotto a Padova per "ripulire" le acque insalubri del fiume Roncajette. L'obiettivo finale è quello di realizzare un impianto pilota con filtri al titanio da porre a valle del depuratore di Ca' Nordio. Il Roncajette è il tratto finale del fiume Bacchiglione, che lambisce il territorio a sud est di Padova, prima di confluire nel Brenta e quindi nell'Adriatico.
"Attualmente stiamo predisponendo test per la verifica della sua attività rispetto a inquinanti reali – spiega Gilberto Rossetto dell´Icis-cnr – e in sistemi in condizioni di flusso continuo. Se anche in questa fase i risultati saranno positivi, il principio potrà essere applicato su scala industriale. Il progetto prevede, infatti, la collocazione di un impianto pilota, costituito da filtri speciali a valle del depuratore di Ca´ Nordio, auspicando anche la realizzazione di economie di scala sulle spese di gestione". "Si tratta di un progetto di riqualificazione delle acque – commenta l´assessore Mauro Bortoli – che si inserisce nel più ampio disegno di implementazione del sistema fognario e della rete idrica padovana. Un tema complesso e prioritario per la città che anche la tecnologia e la ricerca, come in questo caso, possono contribuire a risolvere".
mercoledì 3 marzo 2010
NEL FIUME LAMBRO ORA ANCHE IL PETROLIO
Fiume Lambro: ci mancava il petrolio
Il Fiume Lambro rappresenta da decenni una delle principali sorgenti di inquinamento antropico lungo il corso del Fiume Po. Gli studi condotti dall’Istituto di Ricerca Sulle Acque (IRSA)-CNR fin dalla metà degli anni settanta hanno contribuito prima ad identificare e poi a quantificare il fenomeno, fissando per il Lambro in circa il 30% il contributo al carico totale di inquinanti che viene veicolato dal grande fiume padano nel Mare Adriatico.
La pressione urbana, industriale ed agricola di uno dei territori più sviluppati dell’Europa sono la causa dello stato di degrado elevato delle acque, che nei recenti due decenni ha visto crescere l’attenzione degli Enti gestori anche a seguito dell’adeguamento normativo alla Direttiva Quadro sulle Acque, adeguamento a cui l’IRSA ha fornito un contribuito rilevante per lo sviluppo delle metodologie per la classificazione della qualità ecologica.
Nel tratto a monte della città di Milano a partire dalla metà degli anni ottanta prima il depuratore di San Rocco, della attuale ALSI (Alto Lambro Servizi Idrici), poi il depuratore di Merone, dell’ASIL (Azienda Servizi Integrati Lambro), hanno contribuito a determinare un recupero significativo delle acque del Fiume Lambro, con presenza di fauna ittica, miglioramento della biodiversità della fauna bentonica e ad un aspetto visivo più accettabile delle acque.
Un analogo sforzo gestionale è stato realizzato in quest’ultimo decennio anche a valle di Milano, con la costruzione/ampliamento degli impianti di depurazione di Nosedo, Milano San Rocco e di Peschiera Borromeo, raggiungendo nel 2005 l’obiettivo di trattare la totalità delle acque reflue della metropoli lombarda.
La situazione alle soglie del secondo decennio di questo secolo dava segnali di speranze positive rispetto alla situazione di massimo degrado delle acque raggiunto nel passato, nonostante le difficoltà a raggiungere ancora livelli qualitativi accettabili. In questo contesto si viene ora a inquadrare il problema dello sversamento nel Lambro di una notevole quantità di petrolio e di oli combustibili verificatosi lo scorso 23 Febbraio.
Nonostante che l’impatto sull’ecosistema fluviale sia stato in parte attenuato dall’aver “sacrificato” l’impianto di depurazione dell’ALSI, in cui è stata trattenuta una parte rilevante dei prodotti petroliferi pervenuti attraverso il collettore consortile, la grande quantità di idrocarburi in gioco determinerà un significativo impatto per un certo tempo sulla fauna fluviale. Una situazione solo in parte alleviata dalle portate del fiume in queste settimane, dovute al lungo periodo piovoso che caratterizza questo inverno. In un corso d’acqua, infatti, portate elevate determinano la mobilizzazione degli oli pesanti eventualmente depositatisi sul fondo, mentre quelli più leggeri vengono maggiormente dispersi incrementando i problemi alle biocenosi acquatiche sensibili alla tossicità degli idrocarburi policiclici aromatici (IPA), degli idrocarburi alifatici e degli altri inquinanti più o meno solubili largamente presenti nei prodotti petroliferi riversati nel Lambro. La situazione idrologica attuale del Po può quindi favorire l’attenuazione del fenomeno acuto, ma non necessariamente attenua il problema dell’impatto a lungo termine sull’ecosistema. L’accumulo di idrocarburi nei sedimenti, infatti, potrà rappresentare una sorgente di esposizione a sostanze tossiche per un periodo molto lungo.
Analizzando il problema dell’impatto nel contesto del bacino idrografico padano, le preoccupazioni devono però distinguersi in effetti ecologici sul Po ed effetti sanitari per l’uso potabile delle acque nella parte terminale del suo percorso. Se è difficile, in questo momento in cui l’emergenza è ancora in atto, identificare tutte le differenti e possibili conseguenze ambientali, perché ciò richiederebbe una definizione della reale distribuzione dell’onda di idrocarburi lungo il corso del Po, che non è ancora disponibile, vi è comunque un aspetto che richiede attenzione perché sarà un impatto inevitabile per il Mare Adriatico, l’ecosistema recettore finale. L’interruzione per alcune settimane della operatività dell’impianto ALSI di San Rocco determinerà, infatti, lo sversamento non depurato dei reflui urbani di circa settecentomila abitanti, con la formazione di un carico in eccesso di nutrienti che giungeranno alla foce del Fiume Po in un momento, l’inizio della primavera, durante il quale si hanno le prime fioriture algali, generalmente diatomee, che danno inizio ai naturali cicli stagionali. Esiste quindi una certa possibilità che si possano verificare situazioni di fioriture al di fuori della norma, con conseguenze anche sull’ecosistema marino prospiciente la foce del Po.
Come si vede, le conseguenze di un atto criminale come quello avvenuto a Villasanta, nella provincia di Monza e Brianza, cioè in posizione centro occidentale del bacino idrografico del Po, avrà conseguenze complessive su tutto l’ecosistema sulla cui portata c’è ancora molto da capire. Si possono invece fin da ora considerare le conseguenze a livello sociale, poiché rovesciare intenzionalmente quella quantità di petrolio nel fiume Lambro è più di un reato, è una tragedia culturale ben difficilmente sanabile.
Il Fiume Lambro rappresenta da decenni una delle principali sorgenti di inquinamento antropico lungo il corso del Fiume Po. Gli studi condotti dall’Istituto di Ricerca Sulle Acque (IRSA)-CNR fin dalla metà degli anni settanta hanno contribuito prima ad identificare e poi a quantificare il fenomeno, fissando per il Lambro in circa il 30% il contributo al carico totale di inquinanti che viene veicolato dal grande fiume padano nel Mare Adriatico.
La pressione urbana, industriale ed agricola di uno dei territori più sviluppati dell’Europa sono la causa dello stato di degrado elevato delle acque, che nei recenti due decenni ha visto crescere l’attenzione degli Enti gestori anche a seguito dell’adeguamento normativo alla Direttiva Quadro sulle Acque, adeguamento a cui l’IRSA ha fornito un contribuito rilevante per lo sviluppo delle metodologie per la classificazione della qualità ecologica.
Nel tratto a monte della città di Milano a partire dalla metà degli anni ottanta prima il depuratore di San Rocco, della attuale ALSI (Alto Lambro Servizi Idrici), poi il depuratore di Merone, dell’ASIL (Azienda Servizi Integrati Lambro), hanno contribuito a determinare un recupero significativo delle acque del Fiume Lambro, con presenza di fauna ittica, miglioramento della biodiversità della fauna bentonica e ad un aspetto visivo più accettabile delle acque.
Un analogo sforzo gestionale è stato realizzato in quest’ultimo decennio anche a valle di Milano, con la costruzione/ampliamento degli impianti di depurazione di Nosedo, Milano San Rocco e di Peschiera Borromeo, raggiungendo nel 2005 l’obiettivo di trattare la totalità delle acque reflue della metropoli lombarda.
La situazione alle soglie del secondo decennio di questo secolo dava segnali di speranze positive rispetto alla situazione di massimo degrado delle acque raggiunto nel passato, nonostante le difficoltà a raggiungere ancora livelli qualitativi accettabili. In questo contesto si viene ora a inquadrare il problema dello sversamento nel Lambro di una notevole quantità di petrolio e di oli combustibili verificatosi lo scorso 23 Febbraio.
Nonostante che l’impatto sull’ecosistema fluviale sia stato in parte attenuato dall’aver “sacrificato” l’impianto di depurazione dell’ALSI, in cui è stata trattenuta una parte rilevante dei prodotti petroliferi pervenuti attraverso il collettore consortile, la grande quantità di idrocarburi in gioco determinerà un significativo impatto per un certo tempo sulla fauna fluviale. Una situazione solo in parte alleviata dalle portate del fiume in queste settimane, dovute al lungo periodo piovoso che caratterizza questo inverno. In un corso d’acqua, infatti, portate elevate determinano la mobilizzazione degli oli pesanti eventualmente depositatisi sul fondo, mentre quelli più leggeri vengono maggiormente dispersi incrementando i problemi alle biocenosi acquatiche sensibili alla tossicità degli idrocarburi policiclici aromatici (IPA), degli idrocarburi alifatici e degli altri inquinanti più o meno solubili largamente presenti nei prodotti petroliferi riversati nel Lambro. La situazione idrologica attuale del Po può quindi favorire l’attenuazione del fenomeno acuto, ma non necessariamente attenua il problema dell’impatto a lungo termine sull’ecosistema. L’accumulo di idrocarburi nei sedimenti, infatti, potrà rappresentare una sorgente di esposizione a sostanze tossiche per un periodo molto lungo.
Analizzando il problema dell’impatto nel contesto del bacino idrografico padano, le preoccupazioni devono però distinguersi in effetti ecologici sul Po ed effetti sanitari per l’uso potabile delle acque nella parte terminale del suo percorso. Se è difficile, in questo momento in cui l’emergenza è ancora in atto, identificare tutte le differenti e possibili conseguenze ambientali, perché ciò richiederebbe una definizione della reale distribuzione dell’onda di idrocarburi lungo il corso del Po, che non è ancora disponibile, vi è comunque un aspetto che richiede attenzione perché sarà un impatto inevitabile per il Mare Adriatico, l’ecosistema recettore finale. L’interruzione per alcune settimane della operatività dell’impianto ALSI di San Rocco determinerà, infatti, lo sversamento non depurato dei reflui urbani di circa settecentomila abitanti, con la formazione di un carico in eccesso di nutrienti che giungeranno alla foce del Fiume Po in un momento, l’inizio della primavera, durante il quale si hanno le prime fioriture algali, generalmente diatomee, che danno inizio ai naturali cicli stagionali. Esiste quindi una certa possibilità che si possano verificare situazioni di fioriture al di fuori della norma, con conseguenze anche sull’ecosistema marino prospiciente la foce del Po.
Come si vede, le conseguenze di un atto criminale come quello avvenuto a Villasanta, nella provincia di Monza e Brianza, cioè in posizione centro occidentale del bacino idrografico del Po, avrà conseguenze complessive su tutto l’ecosistema sulla cui portata c’è ancora molto da capire. Si possono invece fin da ora considerare le conseguenze a livello sociale, poiché rovesciare intenzionalmente quella quantità di petrolio nel fiume Lambro è più di un reato, è una tragedia culturale ben difficilmente sanabile.
lunedì 1 marzo 2010
RECUPERARE ACQUA DALLA ATMOSFERA
I giardini di nebbia di Atacama
Un gruppo di studenti dell’Università Tecnica Federico Santa María in Cile ha studiato strutture e tecnologie che consentono di recuperare acqua dall’atmosfera nelle regioni aride. Le strutture inventate si chiamano “Tardonaturalezas Textiles” e sono destinate al deserto di Atacama.
(31-01-2010) Quando da noi in estate non piove, le centrali elettriche devono ridurre la loro produzione perché manca l’acqua per la refrigerazione. In altre regioni del mondo, la mancanza d’acqua crea ben altri problemi. Negli anni 2008 e 2009, un gruppo di studenti dell’Universidad Técnica Federico Santa Maria del Cile ha studiato il problema e ha sviluppato strutture e tecnologie che consentono di recuperare acqua dall’atmosfera nelle regioni aride.
Le strutture inventate sono state chiamate “Tardonaturalezas Textiles”, che può essere tradotto come “tessili tardo-naturali” e sono destinate al deserto di Atacama, una regione con un clima particolarmente estremo.
Nel deserto di Atacama si può ammirare uno spettacolo naturale unico: durante le prime ore della mattina, sotto le cime delle montagne, si formano delle nebbie che rimangono poi prigioniere nelle vallate fornendo alle piante la necessaria umidità. Il fenomeno si chiama “camanchaca” ed è particolarmente impressionante visto dal fondo marrone-rosastro della sabbia. Non resta però molta umidità e la rugiada non è sufficiente a far sopravvivere la già scarsa flora.
Il seminario, organizzato nel 2008 dall’Universidad Técnica Federico Santa Maria, ha pertanto avuto per tema la progettazione dei cosiddetti “Acchiappanebbia” o “Acchiapparugiada”. Il particolare di queste costruzioni è che sono multifunzionali. Non raccolgono solo la rugiada, ma si adattano anche al loro ambiente come organismi. Le strutture progettate si adattano gradualmente alle condizioni di umidità e sono in grado di bilanciare o di accelerare i dinamici processi microclimatici.
Gli studenti hanno sviluppato sei differenti prototipi di strutture tessili, che hanno raggruppato in un campo sperimentale presso il centro di ricerca di Atacama distante circa 60 chilometri a sud dalla città di Iquique. Questi impianti sono stati battezzati “giardini di nebbia”. I tessili usati dagli studenti sono le cosiddette “reti Rashell“, un tessuto speciale che fa passare i raggi UV e l’umidità e che trova applicazione come filtro e in serre per raccogliere la rugiada. Queste reti sono sorrette da costruzioni metalliche. Le strutture degli “Acchiappanebbia” non sono solo funzionali: gli studenti sono riusciti anche a conferire a ogni prototipo una forma individuale che si ispira alle strutture della natura. Così si trovano forme che ricordano ragnatele, rampicanti, insetti e cristalli.
Nel 2009 è stato organizzato un secondo seminario intitolato “Infrabotanicas Textiles”. L’obiettivo di questo seminario era non solo quello di assorbire umidità dall’aria mediante le “Acchiapparugiada”, ma anche promuovere la crescita della vegetazione locale. Così si è sperimentato un altro processo. Le strutture non raccolgono solo l’umidità che inumidisce la terra, ma evitano anche l’evaporazione e l’erosione del terriccio affinché le piante possano attecchire. Anche questo sistema è stato sperimentato nell’orto botanico del centro di ricerca di Atacama.
La galleria fotografica mostra alcune immagini delle strutture ideate dagli studenti dell’Universidad Técnica Federico Santa Maria.
Un gruppo di studenti dell’Università Tecnica Federico Santa María in Cile ha studiato strutture e tecnologie che consentono di recuperare acqua dall’atmosfera nelle regioni aride. Le strutture inventate si chiamano “Tardonaturalezas Textiles” e sono destinate al deserto di Atacama.
(31-01-2010) Quando da noi in estate non piove, le centrali elettriche devono ridurre la loro produzione perché manca l’acqua per la refrigerazione. In altre regioni del mondo, la mancanza d’acqua crea ben altri problemi. Negli anni 2008 e 2009, un gruppo di studenti dell’Universidad Técnica Federico Santa Maria del Cile ha studiato il problema e ha sviluppato strutture e tecnologie che consentono di recuperare acqua dall’atmosfera nelle regioni aride.
Le strutture inventate sono state chiamate “Tardonaturalezas Textiles”, che può essere tradotto come “tessili tardo-naturali” e sono destinate al deserto di Atacama, una regione con un clima particolarmente estremo.
Nel deserto di Atacama si può ammirare uno spettacolo naturale unico: durante le prime ore della mattina, sotto le cime delle montagne, si formano delle nebbie che rimangono poi prigioniere nelle vallate fornendo alle piante la necessaria umidità. Il fenomeno si chiama “camanchaca” ed è particolarmente impressionante visto dal fondo marrone-rosastro della sabbia. Non resta però molta umidità e la rugiada non è sufficiente a far sopravvivere la già scarsa flora.
Il seminario, organizzato nel 2008 dall’Universidad Técnica Federico Santa Maria, ha pertanto avuto per tema la progettazione dei cosiddetti “Acchiappanebbia” o “Acchiapparugiada”. Il particolare di queste costruzioni è che sono multifunzionali. Non raccolgono solo la rugiada, ma si adattano anche al loro ambiente come organismi. Le strutture progettate si adattano gradualmente alle condizioni di umidità e sono in grado di bilanciare o di accelerare i dinamici processi microclimatici.
Gli studenti hanno sviluppato sei differenti prototipi di strutture tessili, che hanno raggruppato in un campo sperimentale presso il centro di ricerca di Atacama distante circa 60 chilometri a sud dalla città di Iquique. Questi impianti sono stati battezzati “giardini di nebbia”. I tessili usati dagli studenti sono le cosiddette “reti Rashell“, un tessuto speciale che fa passare i raggi UV e l’umidità e che trova applicazione come filtro e in serre per raccogliere la rugiada. Queste reti sono sorrette da costruzioni metalliche. Le strutture degli “Acchiappanebbia” non sono solo funzionali: gli studenti sono riusciti anche a conferire a ogni prototipo una forma individuale che si ispira alle strutture della natura. Così si trovano forme che ricordano ragnatele, rampicanti, insetti e cristalli.
Nel 2009 è stato organizzato un secondo seminario intitolato “Infrabotanicas Textiles”. L’obiettivo di questo seminario era non solo quello di assorbire umidità dall’aria mediante le “Acchiapparugiada”, ma anche promuovere la crescita della vegetazione locale. Così si è sperimentato un altro processo. Le strutture non raccolgono solo l’umidità che inumidisce la terra, ma evitano anche l’evaporazione e l’erosione del terriccio affinché le piante possano attecchire. Anche questo sistema è stato sperimentato nell’orto botanico del centro di ricerca di Atacama.
La galleria fotografica mostra alcune immagini delle strutture ideate dagli studenti dell’Universidad Técnica Federico Santa Maria.
domenica 28 febbraio 2010
UN SOFTWARE A DISPOSIZIONE DEGLI AGRICOLTORI PER OTTIMIZZARE IL RISPARMIO DELL'ACQUA DI IRRIGAZIONE
ANBI propone il software che ottimizza l’uso dell’acqua in agricoltura
Si tratta di un software messo a punto per ottimizzare l’uso dell’acqua durante l’irrigazione dei campi. “Ci stiamo lavorando da mesi, commenta Massimo Gargano, presidente Anbi, ma è particolarmente significativo che il suo lancio nazionale avvenga all’indomani dell’ importante vertice mondiale de L’Aquila, dove il tema centrale è stato il diritto all’acqua per tutti.”
“In questa prospettiva –continua il presidente- è necessario che un Paese, idricamente favorito come l’Italia, si assuma la responsabilità di ridurre i consumi d’acqua, preservando così la risorsa. La nostra proposta si chiama Irriframe ed è l’evoluzione più avanzata di esperienze condotte, da tempo, nei singoli Consorzi di bonifica ed in particolare dal Cer (Consorzio canale emiliano romagnolo) nella logica di quella “cultura del fare”, che permea il mondo della bonifica.”
Il software è assolutamente innovativo, perché combina i dati sulla disponibilità di risorsa idrica, sulla gestione imposta alle reti distributive e sulle caratteristiche idrauliche delle strutture di fornitura d’acqua alle utenze. Gestito centralmente dall’Anbi per rendere il servizio omogeneo sull’intero territorio nazionale, Irriframe sarà fortemente connotato per ogni singolo Consorzio.
Ogni agricoltore potrà ricevere il consiglio per una migliore irrigazione o via web o direttamente sul proprio cellulare attraverso Sms. Il sistema avrà, come area di riferimento, i distretti irrigui valutando, per ciascuno, l’idroesigenza delle colture, le indicazioni meteorologiche, i dati sullo stato idrico del suolo e della falda, le caratteristiche dell’impianto irriguo.
Incrociando tali parametri, Irriframe calcolerà il bilancio idrico, fornendo indicazioni su quando e quanto irrigare. Ciò permetterà di ottimizzare l’utilizzo d’acqua, risparmiandone il consumo, riducendo i costi di produzione, incrementando la competitività dell’agricoltura italiana; migliorerà anche la qualità del prodotto e saranno stabilizzate le rese fra le singole annate
Si tratta di un software messo a punto per ottimizzare l’uso dell’acqua durante l’irrigazione dei campi. “Ci stiamo lavorando da mesi, commenta Massimo Gargano, presidente Anbi, ma è particolarmente significativo che il suo lancio nazionale avvenga all’indomani dell’ importante vertice mondiale de L’Aquila, dove il tema centrale è stato il diritto all’acqua per tutti.”
“In questa prospettiva –continua il presidente- è necessario che un Paese, idricamente favorito come l’Italia, si assuma la responsabilità di ridurre i consumi d’acqua, preservando così la risorsa. La nostra proposta si chiama Irriframe ed è l’evoluzione più avanzata di esperienze condotte, da tempo, nei singoli Consorzi di bonifica ed in particolare dal Cer (Consorzio canale emiliano romagnolo) nella logica di quella “cultura del fare”, che permea il mondo della bonifica.”
Il software è assolutamente innovativo, perché combina i dati sulla disponibilità di risorsa idrica, sulla gestione imposta alle reti distributive e sulle caratteristiche idrauliche delle strutture di fornitura d’acqua alle utenze. Gestito centralmente dall’Anbi per rendere il servizio omogeneo sull’intero territorio nazionale, Irriframe sarà fortemente connotato per ogni singolo Consorzio.
Ogni agricoltore potrà ricevere il consiglio per una migliore irrigazione o via web o direttamente sul proprio cellulare attraverso Sms. Il sistema avrà, come area di riferimento, i distretti irrigui valutando, per ciascuno, l’idroesigenza delle colture, le indicazioni meteorologiche, i dati sullo stato idrico del suolo e della falda, le caratteristiche dell’impianto irriguo.
Incrociando tali parametri, Irriframe calcolerà il bilancio idrico, fornendo indicazioni su quando e quanto irrigare. Ciò permetterà di ottimizzare l’utilizzo d’acqua, risparmiandone il consumo, riducendo i costi di produzione, incrementando la competitività dell’agricoltura italiana; migliorerà anche la qualità del prodotto e saranno stabilizzate le rese fra le singole annate
ULTRAVIOLETTI SPIEGHIAMOCI MEGLIO
Le specifiche lunghezze d'onda responsabili di questa reazione sono situate tra 240 e 280 nanometri (nm) con un picco alla lunghezza d'onda di 265 nm e sono note come UV-C.
Fig. 1 : Gli UV-C all'interno dello spettro d'onda elettromagnetico.
Fig . 2 : La curva di distribuzione di energia spettrale per l'azione germicida e la distribuzione di potenza spettrale per lampade UV a bassa e media pressione
EFFETTO DELL'ULTRAVIOLETTO
Quando un microrganismo è esposto a LTV-C i nuclei delle cellule, a causa del processo fotovoltaico, sono modificate a tal punto che la divisione cellulare e quindi la riproduzione sono inibiti.
PRODUZIONE UV-C
La sorgente UV è praticamente un tubo di quarzo fuso, tipicamente di diametro compreso tra 5 e 20 mm e lunghezza tra i 100 ed i 1200 mm. Il gas inerte con cui il tubo viene riempito, fornisce la scarica primaria e la necessaria azione per eccitare e vaporizzare i minuscoli depositi di mercurio all'interno.
La lampada UV a bassa pressione è soltanto capace di produrre linee tra 185 e 254 nm. Un aumento della corrente fornita causa un rapido riscaldamento della lampada che consente alla pressione del mercurio di aumentare per produrre il tipico spettro a media pressione riportato nel diagramma 2.
DOSE ULTRAVIOLETTA
La dose ultravioletta è il prodotto dell'intensità UV (espressa come energia per unità di superficie) con il tempo di residenza.
Quindi:- DOSE = I x T
E' comunemente espressa come 1mJ/cm2=1000 micro Watt secondo/cm2
La minima dose di parete espressa da Willand garantisce successo all'utente. Le dosi medie e cumulative offerte da altri si basano sulle caratteristiche del flusso turbolento che possono anche sparire qualora la portata sia variabile.
Willand raccomanda la giusta dose UV per ogni applicazione tenendo in considerazione la qualità dell'acqua, l'età del tubo ad arco, gli standard industriali e la sfida microbiologica.
RELAZIONE DOSE / DISTRUZIONE
La relazione esistente tra la dose ed il livello di distruzione raggiunto da un microrganismo obiettivo può essere riassunta come segue:
Dove:
N = Numero iniziale di organismi obiettivo
No = Numero di organismi obiettivo dono trattamento
K = Costante associata agli organismi obiettivo
D = Dose
Dalle relazione sovrastante un raddoppio della dose applicata aumenta la distruzione di un fattore 10. Quindi raddoppiando la dose richiesta per una distruzione del 90% si avrà una distruzione del 99% dell'organismo obiettivo. Triplicando la dose di avrà una distruzione del 99.9% dell'organismo obiettivo e così via.
Alcuni valori per una distruzione pari al 99% sono mostrati in figura 3 e la relazione tra dose UV e distruzione è mostrata in figura 4.
FIG. 3. : Dosi richieste - comuni microrganismi
Specie
Dose (mJ/cm2)
Bacillus subtilis (spore) 12.0
Clostridium tetani 4.9
Legionella Pneumophilla 2.04
Pseudonomas aeruginosa 5.5
Streptococcus feacalis 4.5
Hepatitis A virus 11.0
Hepatitis Poliovirus 12.0
Saccharomyces cervisiae 6.0
Infectious pancreatic necrosis 60.0
FIG. 4. : E.coli (indicatore patogeno trasportato dall'acqua) DOSE = 5.4 mJ/cm2
Dose mJ/cm2 Riduzione nel numero di organismi viventi
5.4 90.0%
10.8 99.0%
16.2 99.9%
21.6 99.99%
27.0 99.999%
APPLICAZIONI
DISINFEZIONE
•LIQUIDI :- Acqua, sciroppo, emulsioni, brine.
•SUPERFICI :- Pacchi, catene di montaggio, cibo, superfici di lavorazione.
•GAS/ARIA :- Preparazione del cibo, stanze pulite, condizionamento dell'aria.
REAZIONI FOTOCHIMICHE
•OSSIDAZIONE:- Riduzione del TOC, distruzione dell'ozono, rimozione del cloro.
•CATALISI :- Abbattimento dei pesticidi, trattamento effluenti, recupero del terreno.
•DEODORIZZAZIONE:- Fognature ed emissioni industriali.
TUBI AD ARCO A MEDIA ED ALTA PRESSIONE
Le potenze vanno da 0.4 kW a 7.0 kW con una capacità di trattamento massina di 600 m3/ora con una singola lampada.
L'uscita ad elevata energia è ugualmente efficace sia con fluidi caldi che freddi.
L'ampio spettro di uscita agisce più efficacemente rispetto alle lampade a bassa pressione su portate > 13 m3/ora. La conversione da potenza in ingresso ad uscita biocida è > 15%.
La durata delle lampade varia tra 4000 e 800 ore a seconda delle condizioni operative.
Uno spettro pieno in uscita 185 -180 nm è disponibile per reazioni fotochimiche.
LAMPADE A BASSA PRESSIONE
Ideali per situazioni con basse portate con alimentazioni comprese tra 15 e 200 W.
Uscita singola a lungezza d'onda 254 nm.
Conversione a UV-C tipicamente compresa tra 30 e 35%.
Lampade 120-200 W non sono alterate dalla temperatura dell'acqua.
CAMERE DI IRRADIAZIONE
Il processo di disinfezione implica l'esposizione di fluidi con contaminazione microbiologica ad una sorgente UV che è montata centralmente in una camera di irradiazione.
Lenntech ritiene che un corretto design della camera gioca un ruolo significativo per una disinfezione efficace e a tal fine la modellazione al computer è usata per stabilire il flusso turbolento, che assicura buona miscelazione ed esposizione bilanciata a flusso alto e basso e corretto tempo di residenza.
I sistemi UV di Lenntech garantiscono una dose UV alla parete, per tutta la durata della lampada. Ciò protegge il processo da un possibile trattamento inadeguato che può portare ad un corto circuito quando sono usate dosi medie e cumulative.
Una rifinitura interna di elevata qualità consente di evitare zone d'ombra e altre trappole battericide.
Le camere standard sono dotate di porte di campionamento, dreni e prese d'aria.
L'orientazione all'ingresso ed all'uscita, le dimensioni e le estremità rientrano tra le specifiche del cliente per facilitare l'installazione.
CONFIGURAZIONE CON TUBO AD ARCO SINGOLO
La configurazione ad arco singolo aumenta notevolmente le prestazioni. Una lampada ad elevata intensità è in grado di disinfettare fino a 600 m3/ora. Il monitoraggio dell'intensità UV è positivo, semplice, efficace e collaudato.
Design di tubi multipli che sfruttano più lampade UV a bassa pressione alloggiate in una camera presentano sia problemi idraulici e meccanici. La manutenzione richiede tempo e soldi. Sono necessari diaframmi per introdurre turbolenza e attraverso il loro effetto ombreggiante è possibile che l'acqua non trattata attraversi la camera protetta dal monitor
MONITORAGGIO DELL'INTENSITA' UV
I monitor per l'intensità Willand rispondono alla lice UV-C. Il monitor costituisce una garanzia di corretto funzionamento con un efficace uscita. Quando viene raggiunto il limite soglia di uscita UV-C viene avvaito un allarme. L'uscita del monitor può essere collegata ad unità BEM o PLC per assicurare funzionamento ottimale dell'impianto.
Fig. 1 : Gli UV-C all'interno dello spettro d'onda elettromagnetico.
Fig . 2 : La curva di distribuzione di energia spettrale per l'azione germicida e la distribuzione di potenza spettrale per lampade UV a bassa e media pressione
EFFETTO DELL'ULTRAVIOLETTO
Quando un microrganismo è esposto a LTV-C i nuclei delle cellule, a causa del processo fotovoltaico, sono modificate a tal punto che la divisione cellulare e quindi la riproduzione sono inibiti.
PRODUZIONE UV-C
La sorgente UV è praticamente un tubo di quarzo fuso, tipicamente di diametro compreso tra 5 e 20 mm e lunghezza tra i 100 ed i 1200 mm. Il gas inerte con cui il tubo viene riempito, fornisce la scarica primaria e la necessaria azione per eccitare e vaporizzare i minuscoli depositi di mercurio all'interno.
La lampada UV a bassa pressione è soltanto capace di produrre linee tra 185 e 254 nm. Un aumento della corrente fornita causa un rapido riscaldamento della lampada che consente alla pressione del mercurio di aumentare per produrre il tipico spettro a media pressione riportato nel diagramma 2.
DOSE ULTRAVIOLETTA
La dose ultravioletta è il prodotto dell'intensità UV (espressa come energia per unità di superficie) con il tempo di residenza.
Quindi:- DOSE = I x T
E' comunemente espressa come 1mJ/cm2=1000 micro Watt secondo/cm2
La minima dose di parete espressa da Willand garantisce successo all'utente. Le dosi medie e cumulative offerte da altri si basano sulle caratteristiche del flusso turbolento che possono anche sparire qualora la portata sia variabile.
Willand raccomanda la giusta dose UV per ogni applicazione tenendo in considerazione la qualità dell'acqua, l'età del tubo ad arco, gli standard industriali e la sfida microbiologica.
RELAZIONE DOSE / DISTRUZIONE
La relazione esistente tra la dose ed il livello di distruzione raggiunto da un microrganismo obiettivo può essere riassunta come segue:
Dove:
N = Numero iniziale di organismi obiettivo
No = Numero di organismi obiettivo dono trattamento
K = Costante associata agli organismi obiettivo
D = Dose
Dalle relazione sovrastante un raddoppio della dose applicata aumenta la distruzione di un fattore 10. Quindi raddoppiando la dose richiesta per una distruzione del 90% si avrà una distruzione del 99% dell'organismo obiettivo. Triplicando la dose di avrà una distruzione del 99.9% dell'organismo obiettivo e così via.
Alcuni valori per una distruzione pari al 99% sono mostrati in figura 3 e la relazione tra dose UV e distruzione è mostrata in figura 4.
FIG. 3. : Dosi richieste - comuni microrganismi
Specie
Dose (mJ/cm2)
Bacillus subtilis (spore) 12.0
Clostridium tetani 4.9
Legionella Pneumophilla 2.04
Pseudonomas aeruginosa 5.5
Streptococcus feacalis 4.5
Hepatitis A virus 11.0
Hepatitis Poliovirus 12.0
Saccharomyces cervisiae 6.0
Infectious pancreatic necrosis 60.0
FIG. 4. : E.coli (indicatore patogeno trasportato dall'acqua) DOSE = 5.4 mJ/cm2
Dose mJ/cm2 Riduzione nel numero di organismi viventi
5.4 90.0%
10.8 99.0%
16.2 99.9%
21.6 99.99%
27.0 99.999%
APPLICAZIONI
DISINFEZIONE
•LIQUIDI :- Acqua, sciroppo, emulsioni, brine.
•SUPERFICI :- Pacchi, catene di montaggio, cibo, superfici di lavorazione.
•GAS/ARIA :- Preparazione del cibo, stanze pulite, condizionamento dell'aria.
REAZIONI FOTOCHIMICHE
•OSSIDAZIONE:- Riduzione del TOC, distruzione dell'ozono, rimozione del cloro.
•CATALISI :- Abbattimento dei pesticidi, trattamento effluenti, recupero del terreno.
•DEODORIZZAZIONE:- Fognature ed emissioni industriali.
TUBI AD ARCO A MEDIA ED ALTA PRESSIONE
Le potenze vanno da 0.4 kW a 7.0 kW con una capacità di trattamento massina di 600 m3/ora con una singola lampada.
L'uscita ad elevata energia è ugualmente efficace sia con fluidi caldi che freddi.
L'ampio spettro di uscita agisce più efficacemente rispetto alle lampade a bassa pressione su portate > 13 m3/ora. La conversione da potenza in ingresso ad uscita biocida è > 15%.
La durata delle lampade varia tra 4000 e 800 ore a seconda delle condizioni operative.
Uno spettro pieno in uscita 185 -180 nm è disponibile per reazioni fotochimiche.
LAMPADE A BASSA PRESSIONE
Ideali per situazioni con basse portate con alimentazioni comprese tra 15 e 200 W.
Uscita singola a lungezza d'onda 254 nm.
Conversione a UV-C tipicamente compresa tra 30 e 35%.
Lampade 120-200 W non sono alterate dalla temperatura dell'acqua.
CAMERE DI IRRADIAZIONE
Il processo di disinfezione implica l'esposizione di fluidi con contaminazione microbiologica ad una sorgente UV che è montata centralmente in una camera di irradiazione.
Lenntech ritiene che un corretto design della camera gioca un ruolo significativo per una disinfezione efficace e a tal fine la modellazione al computer è usata per stabilire il flusso turbolento, che assicura buona miscelazione ed esposizione bilanciata a flusso alto e basso e corretto tempo di residenza.
I sistemi UV di Lenntech garantiscono una dose UV alla parete, per tutta la durata della lampada. Ciò protegge il processo da un possibile trattamento inadeguato che può portare ad un corto circuito quando sono usate dosi medie e cumulative.
Una rifinitura interna di elevata qualità consente di evitare zone d'ombra e altre trappole battericide.
Le camere standard sono dotate di porte di campionamento, dreni e prese d'aria.
L'orientazione all'ingresso ed all'uscita, le dimensioni e le estremità rientrano tra le specifiche del cliente per facilitare l'installazione.
CONFIGURAZIONE CON TUBO AD ARCO SINGOLO
La configurazione ad arco singolo aumenta notevolmente le prestazioni. Una lampada ad elevata intensità è in grado di disinfettare fino a 600 m3/ora. Il monitoraggio dell'intensità UV è positivo, semplice, efficace e collaudato.
Design di tubi multipli che sfruttano più lampade UV a bassa pressione alloggiate in una camera presentano sia problemi idraulici e meccanici. La manutenzione richiede tempo e soldi. Sono necessari diaframmi per introdurre turbolenza e attraverso il loro effetto ombreggiante è possibile che l'acqua non trattata attraversi la camera protetta dal monitor
MONITORAGGIO DELL'INTENSITA' UV
I monitor per l'intensità Willand rispondono alla lice UV-C. Il monitor costituisce una garanzia di corretto funzionamento con un efficace uscita. Quando viene raggiunto il limite soglia di uscita UV-C viene avvaito un allarme. L'uscita del monitor può essere collegata ad unità BEM o PLC per assicurare funzionamento ottimale dell'impianto.
venerdì 19 febbraio 2010
BASTA CON LE NAVI DEI VELENI
Navi dei veleni: nasce l'Osservatorio per un Mediterraneo libero da veleni
Dopo lo scandalo delle navi dei veleni, 10 associazioni fra cui la Società Chimica Italiana (SCI) si sono unite per dire basta ai traffici illeciti internazionali di rifiuti via mare, chiedendo al Governo, Magistratura e Parlamento un impegno concorde per mettere con le spalle al muro la rete di trafficanti delle “navi dei veleni” disinnescare la bomba ad orologeria, ai danni dell’ambiente e della salute dei cittadini, costituita dalle “navi a perdere” e dalle zone franche costiere dove sono stati affondati o seppelliti rifiuti pericolosi o radioattivi.
Nasce cosi l’“Osservatorio per un Mediterraneo libero da veleni” con il compito di seguire otto filoni di attività:
- La creazione di un rapporto organico tra i tre organismi parlamentari interessati con potere di indagine (Commissione bicamerale di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica e Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie);
- La creazione di un coordinamento tra le Procure coinvolte nelle indagini;
- La convocazione da parte del ministero dell'Interno di un tavolo con le forze dell'ordine che indagano sulle “navi dei veleni”;
- L'istituzione di una struttura ad hoc al Ministero dell'Ambiente per una mappatura del fenomeno;
- L’attivazione del Ministero della Salute per la raccolta delle segnalazioni dalle Asl;
- La predisposizione di azioni di bonifica dei relitti;
- Lo stanziamento di fondi per le indagini;
- L'accertamento delle responsabilità penali, non solo per i comandanti ma anche per gli armatori e i proprietari delle navi.
Dopo lo scandalo delle navi dei veleni, 10 associazioni fra cui la Società Chimica Italiana (SCI) si sono unite per dire basta ai traffici illeciti internazionali di rifiuti via mare, chiedendo al Governo, Magistratura e Parlamento un impegno concorde per mettere con le spalle al muro la rete di trafficanti delle “navi dei veleni” disinnescare la bomba ad orologeria, ai danni dell’ambiente e della salute dei cittadini, costituita dalle “navi a perdere” e dalle zone franche costiere dove sono stati affondati o seppelliti rifiuti pericolosi o radioattivi.
Nasce cosi l’“Osservatorio per un Mediterraneo libero da veleni” con il compito di seguire otto filoni di attività:
- La creazione di un rapporto organico tra i tre organismi parlamentari interessati con potere di indagine (Commissione bicamerale di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica e Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie);
- La creazione di un coordinamento tra le Procure coinvolte nelle indagini;
- La convocazione da parte del ministero dell'Interno di un tavolo con le forze dell'ordine che indagano sulle “navi dei veleni”;
- L'istituzione di una struttura ad hoc al Ministero dell'Ambiente per una mappatura del fenomeno;
- L’attivazione del Ministero della Salute per la raccolta delle segnalazioni dalle Asl;
- La predisposizione di azioni di bonifica dei relitti;
- Lo stanziamento di fondi per le indagini;
- L'accertamento delle responsabilità penali, non solo per i comandanti ma anche per gli armatori e i proprietari delle navi.
giovedì 18 febbraio 2010
SOLE E BROMO OSSIDANO IL MERCURIO IN ATMOSFERA CHE DIVIENE METILMERCURIO ALTAMENTE TOSSICO PER L'AMBIENTE
"L'impronta digitale" che svela il destino del mercurio nell'Artico
Il mercurio è presente prevalentemente in fase gassosa nell'atmosfera costituendo un potenziale inquinante "globale". Esso, infatti, nella forma elementare non è nocivo, ma lo diventa ossidandosi.
I ricercatori dell'Università del Michigan hanno scoperto il modo per monitorare la presenza di mercurio negli ecosistemi artici, attraverso "l'impronta digitale". La scoperta offre una nuova visione su ciò che succede al mercurio quando dall'atmosfera è depositato sulla neve dell'Artico. I ricercatori, secondo quanto si legge sulla rivista Nature Geoscience, sono riusciti a "seguire" tutte le tappe in cui il mercurio, da uno stato "non particolarmente nocivo" per l'ambiente, si trasforma in una sostanza altamente tossica per gli animali e anche per gli esseri umani.
Le analisi svolte hanno, infatti, evidenziato l'esistenza di "un'impronta digitale", che il metallo lascia sulla neve attraverso il fenomeno del frazionamento isotopico, che può essere utilizzato per studiare l'andamento di queste reazioni nei ghiacci attraverso il tempo. Il mercurio è stato dimostrato che, quando viene rilasciato dall'atmosfera e rimane in forma gassosa, non rappresenta, come affermano i ricercatori, "un vero problema ambientale".
L'elemento chimico diventa invece molto pericoloso quando, attraverso un processo che coinvolge la luce del sole e spesso l'elemento del bromo, viene ossidato: depositandosi sul suolo e nell'acqua dopo che viene prelevato da microrganismi che lo convertono in metilmercurio, diviene altamente tossico per l'ambiente, per i pesci ed animali. Inoltre è provato che provoca danni anche agli esseri umani, colpendo il sistema nervoso centrale, il cuore e il sistema immunitario. "La scoperta ci ha permesso di utilizzare le impronte digitali per misurare la quantità di mercurio che entra in circolo negli ecosistemi artici" ha affermato Laura Sherman, primo autore dello studio.
"I nostri esperimenti - continua la scienziata - hanno dimostrato che una porzione significativa del mercurio depositato sulla neve ritorna nell'atmosfera e questo processo produce un'impronta digitale unica, che possiamo utilizzare per studiarne l'andamento nel tempo".
Il mercurio è presente prevalentemente in fase gassosa nell'atmosfera costituendo un potenziale inquinante "globale". Esso, infatti, nella forma elementare non è nocivo, ma lo diventa ossidandosi.
I ricercatori dell'Università del Michigan hanno scoperto il modo per monitorare la presenza di mercurio negli ecosistemi artici, attraverso "l'impronta digitale". La scoperta offre una nuova visione su ciò che succede al mercurio quando dall'atmosfera è depositato sulla neve dell'Artico. I ricercatori, secondo quanto si legge sulla rivista Nature Geoscience, sono riusciti a "seguire" tutte le tappe in cui il mercurio, da uno stato "non particolarmente nocivo" per l'ambiente, si trasforma in una sostanza altamente tossica per gli animali e anche per gli esseri umani.
Le analisi svolte hanno, infatti, evidenziato l'esistenza di "un'impronta digitale", che il metallo lascia sulla neve attraverso il fenomeno del frazionamento isotopico, che può essere utilizzato per studiare l'andamento di queste reazioni nei ghiacci attraverso il tempo. Il mercurio è stato dimostrato che, quando viene rilasciato dall'atmosfera e rimane in forma gassosa, non rappresenta, come affermano i ricercatori, "un vero problema ambientale".
L'elemento chimico diventa invece molto pericoloso quando, attraverso un processo che coinvolge la luce del sole e spesso l'elemento del bromo, viene ossidato: depositandosi sul suolo e nell'acqua dopo che viene prelevato da microrganismi che lo convertono in metilmercurio, diviene altamente tossico per l'ambiente, per i pesci ed animali. Inoltre è provato che provoca danni anche agli esseri umani, colpendo il sistema nervoso centrale, il cuore e il sistema immunitario. "La scoperta ci ha permesso di utilizzare le impronte digitali per misurare la quantità di mercurio che entra in circolo negli ecosistemi artici" ha affermato Laura Sherman, primo autore dello studio.
"I nostri esperimenti - continua la scienziata - hanno dimostrato che una porzione significativa del mercurio depositato sulla neve ritorna nell'atmosfera e questo processo produce un'impronta digitale unica, che possiamo utilizzare per studiarne l'andamento nel tempo".
domenica 14 febbraio 2010
UNA DOCCIA CHE RISPARMIA ACQUA E PRODUCE ENERGIA
La doccia che riduce i consumi e produce energia
Le nostre docce sono una fonte inesauribile di spreco. Secondo uno studio britannico, gli occidentali consumano in media 10 litri di acqua al minuto ogni volta che fanno una doccia. E molti di noi restano sotto l'acqua corrente finanche a 15 minuti. Per questo motivo, il designer israeliano, Rami Tareef, ha pensato ad una doccia più sostenibile e che sfrutti il suo flusso d'acqua per produrre energia.
Monitor flessibile LCD
Si chiama Green Shower e si propone di responsabilizzare maggiormente i suoi utenti sull'importanza di une bene prezioso come l'acqua. Possiede uno schermo LCD flessibile dove poter visualizzare la temperatura e con cui si possono evitare gli sprechi generati dai classici momenti di attesa nel trovare il giusto equilibrio tra acqua calda e fredda.
Una micro-centrale idroelettrica
Inoltre Green Shower incorpora un generatore da 24 V a corrente continua che converte il flusso d'acqua in energia idroelettrica. Così, oltre a permettere un risparmio idrico dichiarato di 1100 litri mensili per nucleo familiare, funziona anche da piccola centrale domestica. Il design, accattivante ed originale, è curato con non meno attenzione di quella dedicata al risparmio energetico.
Le nostre docce sono una fonte inesauribile di spreco. Secondo uno studio britannico, gli occidentali consumano in media 10 litri di acqua al minuto ogni volta che fanno una doccia. E molti di noi restano sotto l'acqua corrente finanche a 15 minuti. Per questo motivo, il designer israeliano, Rami Tareef, ha pensato ad una doccia più sostenibile e che sfrutti il suo flusso d'acqua per produrre energia.
Monitor flessibile LCD
Si chiama Green Shower e si propone di responsabilizzare maggiormente i suoi utenti sull'importanza di une bene prezioso come l'acqua. Possiede uno schermo LCD flessibile dove poter visualizzare la temperatura e con cui si possono evitare gli sprechi generati dai classici momenti di attesa nel trovare il giusto equilibrio tra acqua calda e fredda.
Una micro-centrale idroelettrica
Inoltre Green Shower incorpora un generatore da 24 V a corrente continua che converte il flusso d'acqua in energia idroelettrica. Così, oltre a permettere un risparmio idrico dichiarato di 1100 litri mensili per nucleo familiare, funziona anche da piccola centrale domestica. Il design, accattivante ed originale, è curato con non meno attenzione di quella dedicata al risparmio energetico.
sabato 13 febbraio 2010
DALL'ACQUA LA COLLA PIU' POTENTE DEL MONDO
Dall'acqua l'adesivo per camminare sui muri
Si potrà, un giorno, fare una passeggiata sui muri, come Spider-Man? Forse si, grazie ad un dispositivo messo a punto dai ricercatori della Cornell University (Usa) che sfrutta la tensione superficiale dell'acqua.
Lo studio è stato pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences.
Il dispositivo è il risultato dell’osservazione di un coleottero capace di aderire ad una foglia con una forza di 100 volte il proprio peso. Si tratta di un sistema con due piani: quello inferiore fa da contenitore per l’acqua, quello superiore è forato con buchi dell’ordine di micron. La forza è la stessa che tiene uniti due vetri bagnati.
VIDEO http://www.physorg.com/news184268881.html
“Nella nostra esperienza quotidiana, questa tensione è relativamente debole - spiega Steen - ma a seconda del numero di fori è possibile generare una forza notevole”. Uno dei prototipi, per esempio, presenta mille fori da 300 micron di diametro ed è in grado di sostenere un peso di circa 30 grammi. Riducendo le dimensioni dei fori e aumentandone il numero, la forza di adesione cresce. I ricercatori stimano che un dispositivo di circa sei centimetri quadrati con milioni di buchi da un micron potrebbero sostenere quasi otto chilogrammi.
Cornell University: http://www.news.cornell.edu/stories/Feb10/SteenAdhesion.html
Si potrà, un giorno, fare una passeggiata sui muri, come Spider-Man? Forse si, grazie ad un dispositivo messo a punto dai ricercatori della Cornell University (Usa) che sfrutta la tensione superficiale dell'acqua.
Lo studio è stato pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences.
Il dispositivo è il risultato dell’osservazione di un coleottero capace di aderire ad una foglia con una forza di 100 volte il proprio peso. Si tratta di un sistema con due piani: quello inferiore fa da contenitore per l’acqua, quello superiore è forato con buchi dell’ordine di micron. La forza è la stessa che tiene uniti due vetri bagnati.
VIDEO http://www.physorg.com/news184268881.html
“Nella nostra esperienza quotidiana, questa tensione è relativamente debole - spiega Steen - ma a seconda del numero di fori è possibile generare una forza notevole”. Uno dei prototipi, per esempio, presenta mille fori da 300 micron di diametro ed è in grado di sostenere un peso di circa 30 grammi. Riducendo le dimensioni dei fori e aumentandone il numero, la forza di adesione cresce. I ricercatori stimano che un dispositivo di circa sei centimetri quadrati con milioni di buchi da un micron potrebbero sostenere quasi otto chilogrammi.
Cornell University: http://www.news.cornell.edu/stories/Feb10/SteenAdhesion.html
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