martedì 29 settembre 2009

ENZIMI MODIFICATI PER DECOMPORRE IL TRICLOROPROPANO

Enzimi modificati geneticamente per eliminare sostanze chimiche dall’ambiente


Un team internazionale di scienziati, coordinati dall'Università Masaryk (Repubblica ceca), è riuscito a sviluppare un nuovo metodo per ottimizzare le caratteristiche funzionali degli enzimi. A beneficiare dei risultati ottenuti saranno gli operatori dei settori medicale, chimico e alimentare. La procedura è stata presentata sulla rivista Nature Chemical Biology.

La modificazione degli enzimi può contribuire in modo efficace al benessere di esseri umani e animali e alla tutela dell'ambiente. Una portavoce dell'istituto, che ha sede a Brno, ha affermato che questi enzimi possono essere utilizzati per eliminare in modo sicuro le sostanze chimiche artificiali tossiche che potrebbero avere effetti negativi sull'ambiente.

Tereza Fojtová ha poi spiegato che queste sostanze chimiche hanno ripercussioni considerevoli sulla natura, aggiungendo che gli scienziati dei laboratori della Università Loschmidt hanno scoperto come rimuovere queste tossine dall'ambiente in modo efficiente.

"Siamo ora in grado di utilizzare le modificazioni genetiche per cambiare le caratteristiche degli enzimi in modo tale da consentirgli di degradare le sostanze nocive nell'ambiente più rapidamente e con maggiore semplicità" ha spiegato il professor Jiri Damborsky dell'Istituto di biologia sperimentale dell'Università Masaryk.

Le ricerche svolte in passato miravano alla possibilità di modificare le caratteristiche degli enzimi in situ, all'interno delle strutture, ovvero nel punto in cui avvengono le reazioni chimiche. La differenza di questi studi con quello svolto di recente risiede nel fatto che quest'ultimo ha analizzato le variazioni che avvengono nei cosiddetti "tunnel di accesso". Con questo metodo, la sostanza da decomporre riesce ad accedere al sito attivo attraverso i tunnel di accesso, senza il coinvolgimento di un solvente. In questo modo la decomposizione avviene in tempi considerevolmente più rapidi.

Il team ha provato la validità di questa procedura creando una sostanza altamente tossica in grado di decomporre gli enzimi, definita tricloropropano (TCP). Questa sostanza, che si presenta come un liquido pesante incolore caratterizzato da un odore dolciastro persistente, evapora rapidamente.

Prodotto secondario della produzione chimica, il tricloropropano è in grado di inserirsi principalmente in acqua, nel suolo, nelle acque nere e nella catena alimentare. Il tricloropropano è individuabile da più di un secolo nel suolo e nelle acque del sottosuolo. Secondo i ricercatori questa sostanza tossica è parzialmente responsabile dello sviluppo delle neoplasie umane.

Questa nuovissima procedura ha consentito agli scienziati di sviluppare un enzima in grado di scomporre il TCP a una velocità di 32 volte superiore rispetto al passato. Il metodo può inoltre essere utilizzato in altri campi di applicazione: questa procedura, ad esempio, può essere utilizzata per migliorare la qualità degli enzimi impiegati nella biomedicina, come anche di quelli utilizzati nell'industria chimica e alimentare.

I ricercatori dell'Istituto Pasteur (Francia), dell'Università di Vienna (Austria) e dell'Istituto Weizmann (Israele) hanno già manifestato il loro interesse per questa nuova procedura.

Per questo progetti i ricercatori dell'Università Masaryk si sono avvalsi della collaborazione di colleghi della Palacky University Olomouc (Repubblica ceca), dell'European Media Laboratory (Germania) e della Sendai University (Giappone).

La ricerca è stata parzialmente finanziata dal ministero ceco per l'Istruzione, i giovani e lo sport, dalla Fondazione ceca per la scienza e dalla Fondazione Klaus Tschira in Germania

lunedì 28 settembre 2009

ALMENO QUELLA SULLA LUNA SARA' ACQUA PURA

È ufficiale: c’è acqua sulla Luna


Non saranno laghi, fiumi e oceani, e forse nemmeno acqua allo stato liquido, ma sull'intera superficie lunare esistono molecole di idrossile. Una scoperta importantissima, che oltre ad avere rilevanti conseguenze scientifiche potrebbe influire sull'immaginario di una luna arida e secca.

Tre ricerche indipendenti, basate sui dati provenienti dalle missioni spaziali Chandrayyan 1, Deep Impact e Cassini hanno consentito a studiosi statunitensi di confermare la presenza, in diversi punti della superficie lunare, d’acqua. E questo basta a cambiare profondamente le nostre teorie sulla Luna, a lungo considerato un corpo celeste completamente secco e inospitale, con importanti implicazioni per eventuali colonie umane sul nostro satellite naturale.

I tre gruppi (tra India, Italia e Stati Uniti) hanno utilizzato i dati spettrometrici raccolti dalle tre missioni Chandrayyan 1 (una missione dell’agenzia spaziale indiana lanciata nel 2008) Deep Impact (della NASA, lanciata nel 2005 verso la cometa Tempel 1) e Cassini (missione NASA-ESA-ASI per lo studio di Saturno e dei suoi satelliti). Solo la prima è una missione effettivamente dedicata alla Luna. Le altre due hanno compiuto dei flyby su di essa (quello di Cassini risale al 1999) per sfruttarne l’effetto gravitazionale lungo il loro viaggio. Tutte e tre sono dotate di spettrometri, strumenti in grado di individuare le “firme” caratteristiche di ogni molecola, il suo spettro di assorbimento.

A sorpresa, le osservazioni degli scienziati hanno dimostrato che le zone più ricche d'acqua sono quelle più vicine ai Poli. Inoltre pare che la formazione delle molecole d'acqua sia un processo ciclico, favorito dall'azione del vento solare che deposita continuamente protoni sulla superficie. I protoni, abbinati all'ossigeno presente, danno vita alle molecole di acqua.

I dati pubblicati su Science, spiega Enrico Flamini, responsabile dell’Unità di osservazione dell’Universo dell’Agenzia Spaziale Italiana, ''indicano che c'è una quantità di acqua relativamente alta diffusa su tutta la superficie e intrappolata in minerali idrati''. Il dato interessante, secondo Flamini, è che si tratta ''di una quantità più alta di quella che si potrebbe ipotizzare se l'acqua fosse stata portata sulla Luna dall'impatto di comete. Potrebbe insomma, essere acqua già presente nel momento in cui si è formata la Luna''.

Questa scoperta è destinata a cambiare profondamente il modo in cui guardiamo al nostro satellite naturale. La teoria predominante ha finora descritto la Luna come un pezzo di Terra, staccatosi circa 4 milioni di anni fa (quando il nostro pianeta era ancora in formazione) a causa dell’impatto di un corpo delle dimensioni di Marte. In questo caso, all’epoca della sua nascita la Luna non avrebbe potuto avere acqua sulla sua superficie, ancora costituita da magma ad altissime temperature. Per questo la ricerca di ghiaccio si è sempre concentrata sui freddi crateri vicini alle regioni polari, dove potrebbe essersi conservato dopo l’impatto di una cometa.

Queste conclusioni erano in parte basate sull’analisi dei campioni di rocce lunari riportati dalle missioni Apollo tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta. Campioni per lo più secchi, se non per minime parti di acqua che erano state spiegate come contaminazioni avvenuta sulla Terra. Alla luce degli studi appena pubblicati, quella valutazione era forse errata. Le scoperte annunciate oggi parlano di acqua distribuita sulla superficie del pianeta, per quanto in piccole quantità, e questo non si può spiegare con le comete. Come spiega Flamini, acquista di nuova forza la teoria che la Luna possa essersi formata per accrescimento, come la Terra ma in modo indipendente da essa.

Altre teorie per spiegare la presenza di acqua sulla superficie lunare comprendono l’impatto di meteoriti, che potrebbero aver portato alla superficie dell’acqua intrappolata in profondità. Oppure potrebbe essere il vento solare ad aver portato sulla Luna idrogeno che poi si sarebbe legato con l’ossigeno sul suolo lunare. Dunque, questa scoperta segna una svolta, ma da dove venga la Luna… il dibattito è ancora aperto.



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giovedì 24 settembre 2009

LA CO2 ACIDIFICA GLI OCEANI

Gli oceani assorbono CO₂ rendendo acide le acque


L’acidificazione degli oceani minaccia seriamente il futuro di molti importanti organismi marini. Due studi, in parte finanziati dall'Unione europea e pubblicati ora nella rivista Biogeosciences, mettono in risalto i precedenti avvertimenti lanciati dagli scienziati di tutto il mondo circa questo effetto secondario dovuto alle eccessive emissioni di CO₂.

Entrambe le ricerche sono in parte supportate dal progetto EPOCA ("European project on ocean acidification"), che è finanziato nell'ambito del Settimo programma quadro (7° PQ). EPOCA raggruppa più di 100 ricercatori per studiare le implicazioni biologiche, ecologiche, bio-geo-chimiche e sociali dell'acidificazione oceanica.

I ricercatori hanno esaminato gli effetti della crescente acidificazione su una parte rilevante della catena alimentare dell'oceano e sui coralli presenti nelle acque profonde. Entrambe queste aree mostrano dei marcati cambiamenti nella struttura, nella funzione e nelle attività degli ecosistemi polari.

Gli oceani hanno assorbito un terzo delle emissioni di biossido di carbonio prodotte dal 1800, limitando così il riscaldamento globale. Tuttavia, le proprietà chimiche dell'acqua di mare hanno subito dei mutamenti significativi, come la riduzione dei livelli di pH (il processo definito acidificazione).

Gli studi hanno esaminato due anelli nell'ecosistema marino artico. Il primo sono gli pteropodi, una diffusa specie di molluschi pelagici che rappresenta il cibo preferito di zooplancton, aringhe, balene e altri predatori. Le barriere coralline che si trovano in acque fredde e profonde costituiscono un rifugio per molte specie e fungono da indicatore delle proprietà chimiche delle acque marine in loro prossimità.

L'altro anello della catena, il corallo Lophelia pertusa che vive in acque fredde, è stato tra i primi ad essere colpiti dalla crescente acidificazione. Poiché vivono nelle profondità oceaniche, queste specie sono anche molto difficili da raggiungere. In uno dei primi studi di questo genere, i ricercatori dell'Istituto nazionale francese delle Scienze dell'Universo (CNRS-INSU) e dell'Istituto Reale olandese per la Ricerca Marittima hanno collaborato al fine di raccogliere campioni.

I campioni di pteropodi sono stati raccolti vicino all'isola di Spitsbergen, in Norvegia, utilizzando un nuovo metodo che non sottopone a stress gli animali e permette loro di sopravvivere per un periodo in cattività. Questo tipo di studio è fondamentale per capire come gli pteropodi reagiscono alla crescente acidificazione e ai cambiamenti dei livelli di aragonite.

Al fine di comprendere pienamente l'effetto dei cambiamenti climatici sugli pteropodi, i ricercatori stanno cercando di aumentare il periodo di tempo in cui gli animali possono essere tenuti in cattività. Questo ulteriore lavoro sfrutterà i metodi utilizzati nella ricerca, permettendo di ottenere una panoramica più completa di come i cambiamenti dei livelli di acidificazione possano colpire questo anello fondamentale della catena alimentare dell'oceano.

I ricercatori hanno scoperto che anche i campioni di corallo raccolti nel Mare del Nord subivano le ripercussioni dell'acidificazione. A differenza dei coralli tropicali, le barriere coralline in acque fredde sono costruite da una o due specie: l'aumentata acidificazione li fa crescere ad un ritmo più lento, cosa che potrebbe costituire una potenziale minaccia per l'esistenza di queste strutture biologiche. Tuttavia, l'esatta misurazione della loro crescita è ostacolata dal fatto che non crescono allo stesso modo delle barriere coralline tropicali. Ottimizzando i futuri esperimenti sulle reazioni dei coralli che vivono nelle acque profonde all'aumento della calcificazione, i ricercatori sperano di estendere e allargare le ricerche ad altri settori geografici e a diverse profondità.

Attualmente, il solo modo conosciuto per controllare l'acidificazione oceanica consiste nel limitare i futuri livelli di CO2 nell'atmosfera terrestre. Mentre particolare attenzione viene dedicata all'effetto che l'aumento della temperatura potrebbe avere, l'effetto del continuo assorbimento di CO2 da parte degli oceani avrà delle conseguenze potenzialmente drammatiche su interi ecosistemi.

FRA QUALCHE ANNO ANCHE IL METOMIL NELLE FALDE

UE: il metomil è autorizzato


La Commissione europea ha rivalutato, e poi inserito, il metomil nell'apposito elenco delle sostanze attive contenute nella direttiva europea relativa all'immissione in commercio dei prodotti fitosanitari.

Dunque, potrà essere messo sul mercato, ma solo come insetticida per vegetali e nel rispetto degli accorgimenti previsti dal rapporto del Comitato permanente per la catena alimentare e la salute degli animali. Gli stati membri dovranno adeguarsi entro il 31 gennaio 2010.

La produzione e il consumo di prodotti di origine vegetale e animale rivestono grande importanza nella Comunità. Ma la resa della produzione vegetale è costantemente minacciata da organismi nocivi. L'impiego di sostanze attive nei prodotti fitosanitari (cioè antiparassitari che possono avere effetti nocivi per l'ambiente, gli animali e anche l'uomo) è uno dei metodi più comuni di protezione dei vegetali e dei prodotti vegetali dall'azione degli organismi nocivi.

L'impiego di tali sostanze può tuttavia comportare la presenza di residui nei prodotti trattati, negli animali nutriti con tali prodotti e nel miele delle api esposte a tali sostanze. Residui dunque che spesso hanno un'elevata tossicità.

Proprio perché è una sostanza potenzialmente pericolosa, gli effetti del metomil sono stati valutati dagli Stati membri, dall'Autorità europea per la sicurezza alimentare e dalla Commissione. In un primo momento, l'iscrizione nell'apposito elenco della direttiva fu rifiutata, a causa della natura inconcludente della valutazione dell'esposizione dei lavoratori e degli astanti.

La nuova valutazione dello Stato membro relatore (Regno Unito) e la nuova conclusione dell'Efsa si sono concentrate sugli elementi che avevano motivato il rifiuto iniziale. Nel nuovo fascicolo sono stati presentati nuovi dati e nuove informazioni ed è stata effettuata una nuova valutazione sul metomil. È stato quindi dimostrato che si possono ottenere livelli accettabili di esposizione dell'operatore indossando dispositivi di protezione supplementari rispetto a quelli indicati nel fascicolo iniziale.

Per quanto concerne i rischi per i lavoratori e per gli astanti, è stato chiarito che alle utilizzazioni indicate nel nuovo fascicolo non sono connessi rischi inaccettabili. Infine i rischi per gli uccelli, i mammiferi, gli organismi acquatici, le api e gli artropodi non bersaglio possono essere considerati accettabili a condizione che venga applicata la dose meno elevata tra quelle indicate e che vengano attuati opportuni provvedimenti di gestione dei rischi.

Non a caso, possono essere autorizzati solo gli usi come insetticida su vegetali, a dosi non superiori a 0,25 kg di sostanza attiva per ettaro per applicazione e non più di due applicazioni per stagione. Tuttavia, al fine di escludere qualsiasi rischio di avvelenamento intenzionale o accidentale, la direttiva prescrivere che nei prodotti fitosanitari contenenti metomil vengano incorporati agenti repellenti e/o emetici e che venga autorizzato esclusivamente l'uso professionale di tali prodotti fitosanitari.

Fonte: Greenreport



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domenica 13 settembre 2009

EFFETI CUMULATIVI DEI PESTICIDI EFFETTI SULLA SALUTE UMANA

Pesticidi: allo studio dell’EFSA gli effetti sulla salute umana


L’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) ha pubblicato i risultati di un lavoro scientifico tuttora in corso volto a sviluppare metodologie per la valutazione degli effetti cumulativi derivanti dall'esposizione dei consumatori ai pesticidi. Il lavoro esamina un gruppo di pesticidi caratterizzati da struttura chimica ed effetti tossici simili, per verificare se il loro impatto sulla salute umana possa essere valutato collettivamente invece che su base solo individuale.

Il gruppo di esperti scientifici dell’EFSA sui prodotti fitosanitari e i loro residui (PPR) è pervenuto alla conclusione che sarebbe necessario raggiungere un consenso a livello internazionale su quali gruppi di pesticidi possano essere analizzati congiuntamente mediante un approccio alla valutazione del rischio cumulativo. Il gruppo di esperti ha specificato che, per risolvere le incertezze, è necessario lavorare ulteriormente all’applicazione delle nuove metodologie di valutazione del rischio cumulativo e che occorrono tuttora linee direttrici per le metodologie idonee alla valutazione dell’esposizione.

In un precedente parere in merito, il gruppo PPR ha esaminato tutti i tipi di tossicità combinata dei pesticidi, compresa l’interazione di sostanze chimiche diverse tra loro ed è giunto alla conclusione che soltanto gli effetti cumulativi derivanti dall’esposizione simultanea a sostanze che possiedono una comune modalità di azione danno adito a timori, per i quali sono necessarie ulteriori indagini.

Per fornire una valutazione delle metodologie proposte nel precedente parere dell’EFSA, il gruppo di esperti ha selezionato alcuni pesticidi del gruppo dei fungicidi triazolici, sulla base della loro somiglianza in termini di struttura chimica e meccanismo d’azione, un prerequisito per la valutazione degli effetti cumulativi. Va sottolineato che tale lavoro non può essere considerato come una valutazione definitiva del rischio associato ai triazoli.

Il gruppo di esperti ha valutato diversi scenari, che prevedevano effetti tossicologici a lungo e a breve termine, e ha preso in considerazione questioni che potrebbero essere pertinenti per quanti hanno la responsabilità di decidere la definizione dei livelli massimi di residui (LMR) o la valutazione della reale esposizione ai pesticidi. La valutazione si è basata su dati recenti in merito ai residui triazolici negli alimenti e su dati relativi al consumo alimentare.

Il lavoro dell’EFSA sulla valutazione del rischio cumulativo, compresi gli esiti del presente parere scientifico, contribuisce alla definizione dei livelli massimi di residui (LMR), i livelli residuali di pesticidi ammessi negli alimenti per assicurare che i consumatori vengano tutelati e buone pratiche agricole vengano seguite. L’iniziativa rientra anche nel continuo impegno dell’EFSA a partecipare in prima linea allo sviluppo di metodologie per la valutazione del rischio. Si rifà inoltre alle raccomandazioni elencate nel suo precedente parere scientifico in merito e rientra nel più ampio lavoro dell'EFSA sulla valutazione del rischio cumulativo, come seguito al "Colloquio scientifico sulla valutazione del rischio cumulativo" del 2006, che ha contribuito a orientare ulteriori sviluppi nel campo.

Fonte: EFSA

mercoledì 9 settembre 2009

ENERGIA VERDE DA UN MIX DI ACQUA DOLCE E SALATA

Energia pulita da un mix di acqua dolce e salata


Anche questa scoperta come molte altre è avvenuta per caso: Doriano Brogioli, ricercatore presso il dipartimento di Medicina Sperimentale dell'Università di Milano-Bicocca si è imbattuto in un'intuizione sul potenziale energetico che può essere ricavato dal contrasto fra soluzioni con diversi gradi di salinità.

Il lavoro è stato pubblicato lo scorso luglio sulla rivista Physical Review Letters e ripreso pochi giorni fa da anche da Nature. In effetti, che il miscuglio di acqua dolce e acqua salata rilasciasse una quantità di energia era un fatto già noto al mondo scientifico sin dagli anni Settanta del secolo scorso, ma non si erano ancora fatti passi avanti per la realizzazione di impianti capaci di estrarre e catturare questa energia in modo costante.

In un anno di lavoro è riuscito a mettere a punto una metodologia efficace per la produzione a costi vantaggiosi di energia elettrica estraibile dal mix di acqua dolce e salata, o dal mix di acqua con diversi gradi di salinità.

Come funziona? «Le tecniche proposte negli anni Settanta - spiega Brogioli - erano antieconomiche perché basate sull'osmosi e richiedevano l'impiego di membrane costose e facili a sporcarsi che permettevano il funzionamento degli impianti solo per poche ore. La tecnica che propongo io è basata sull'elettrocinetica e sulla tecnologia dei supercondensatori a doppio strato, formati da due elettrodi di carbone attivo. Il carbone attivo è un materiale che viene usato nella depurazione dell'acqua ma essendo molto poroso si presta per la realizzazione di elettrodi con grandissima superficie, fino a mille metri quadri per ogni grammo. Grazie a questa enorme superficie, quando i due elettrodi vengono messi nell'acqua salata e vengono caricati assorbono gli ioni e possono contenerne quantità immense. Se si immette acqua dolce gli ioni vengono rimossi dal condensatore sviluppando un potenziale di energia maggiore rispetto a quello iniziale. Il funzionamento a ciclo continuo permette, dunque, di ottenere quantità interessanti di energia pulita e gratuita».

Ma quanta energia si può ottenere? Se, per ipotesi, l'impianto fosse alimentato dall''intera portata d'acqua di un fiume come il Po, l'energia che si potrebbe ottenere è pari a quella prodotta da un impianto nucleare di ultima generazione.Questo sistema, dice Brogioli, può essere molto vantaggioso in alcune singole situazioni dove ci sono risorse inutilizzate a disposizione senza fare danno all'ambiente».

Intanto, alcuni potenziali partner commerciali hanno già manifestato interesse verso la tecnologia sviluppata nei laboratori del dipartimento di Medicina Sperimentale. A farsi avanti sono stati il Centro di ricerca olandese Wetsus e la SGL Group, una società internazionale leader nel campo dei prodotti basati sul carbone con sede anche a Milano.

Fonte: Università degli studi di Milano Bicocca

PFAS COME EIMINARLI DALL'ACQUA POTABILE

  Pfas: qualcuno sa come eliminarli dall’acqua potabile Una ricerca della British Columbia University ha messo a punto uno sp...